prima pagina pagina precedente



INTERVISTA A VITTORIO BELLINI
SignorNo!
Da Monza al Lager: storia di un Internato Militare Italiano.
di Sandro Invidia

Bellini davanti al suo quadro 'Omaggio a Michelangelo'

Bellini davanti al suo quadro "Omaggio a Michelangelo"
Sarà che sono un po' paranoico, sarà la mia ipocondria, sarà la pioggia insistente, ma confesso che di questi tempi è veramente difficile trovare qualche consolazione e motivo di ottimismo. Viviamo giorni infausti, purtroppo; giorni in cui gli Ariani Nazionali hanno rialzato la testa, scagliandosi rabbiosi contro i diversi di ogni tipo e colore: gli immigrati, gli omosessuali, gli infedeli, i comunisti, gli editori "marxisti"… Aleggia già, nell'aria, mista al puzzo stantio delle ipocrite "ideologie" del momento, la cenere spessa dei futuri roghi purificatori. Viviamo tempi cupi; tempi in cui la fatalistica rassegnazione alle Necessità della Storia sembrano aver fatto dimenticare che alla violenza, al razzismo, all'ingiustizia elevata a sistema è sempre possibile dire di "no"! Viviamo in un periodo cupo di preoccupanti prospettive… Sarà per questo che mi sento particolarmente rilassato nel salotto di casa Bellini, seduto ad ascoltare la storia di quel giovanotto di nome Vittorio che, tanti anni fa, del "no" al fascismo fece la propria scelta di vita. È seduto di fronte a me il giovanotto, voce ferma e propensione alla chiacchierata, più che all'intervista. "Di cosa volete che vi parli", chiede un po' perplesso. Forse non gli pare di avere granché da raccontare. Dall'inizio, ovviamente. "Sono nato l'11 novembre del 1917, il giorno della rotta di Caporetto. Fui battezzato da mio zio, ufficiale di marina, che mi volle chiamare Vittorio perché ciò fosse di buon auspicio. Esattamente un anno dopo, la sua speranza venne soddisfatta." 1917. Faccio un veloce calcolo anagrafico e un silenzioso complimento. Non credo che il giovanotto lo percepisca, tanto è preso dal suo racconto. Monzese da generazioni, figlio di un commerciante di colori e articoli per belle arti, studente di ingegneria per volontà dello zio, pittore per vocazione personale, alterna il lavoro alla passione e ottiene riconoscimenti di prestigio: espone alla Biennale di Venezia per due anni consecutivi, il 1947 e il 1948. Per la mostra prepara anche un manifesto, che viene selezionato fra i migliori. È l'amore di tutta una vita, la pittura. Faticoso, come ogni amore. "Ho smesso di dipingere due volte: la prima nel dopoguerra, quando la morte di mio zio mi costrinse a rilevarne lo studio di ingegneria; la seconda cinque o sei anni fa, perché dipingere era diventata per me un'attività estenuante. Troppa sofferenza, e non solo perché dipingevo in piedi…

Targa ai monzesi vittime del nazismo nel lager di Gusen

Targa ai Monzesi vittime del nazismo nel lager di Gusen

Ho smesso di dipingere e ho cominciato a scrivere. Mi sono accorto che potevo dire con le parole le cose che prima esprimevo con i colori, e allora mi sono deciso." Non c'è che dire: ci sono uomini che non sanno accontentarsi di una tranquilla attività. Vittorio Bellini - ingegnere, pittore, "copy" (suo il logo di NovaLuna, l'associazione culturale monzese presieduta da Giovanna Mussi), grafico (per NovaLuna ha realizzato il progetto grafico e il catalogo della mostra L'altro ventennio) - intraprende con baldanza la nuova carriera, pubblicando tre libri in cinque anni. E non basta: "Ho un romanzo nel cassetto, pronto per la stampa!" Mi passa i libri. Si tratta di racconti e testimonianze. La prova, Elogio della vigilia, Come per pittura escono fra il 1991 ed il 1995 per i tipi della viennepierre edizioni, e possono vantare recensori illustri: il poeta Giovanni Giudici e lo scrittore Emilio Tadini, fra gli altri. "Nitore espressivo" e "sensibilità visiva", dicono della sua prosa; "paesaggio dell'anima" e "occasione di memoria", dei contenuti. Già, la memoria. Come non ricordare che Vittorio Bellini, oltre che ingegnere e tutto il resto, è anche un ex-internato militare nei Lager nazisti? Uno di quei 600.000 soldati, cioè, i quali, lasciati a se stessi l'8 settembre del '43, si rifiutarono di prendere le armi e opposero un secco rifiuto alle pressioni e alle minacce della neonata repubblica sociale italiana e dei suoi alleati germanici. Un "no" impegnativo: deportati "volontari" nei campi di prigionia tedeschi; costretti al lavoro coatto senza nemmeno l'assistenza della Croce Rossa; umiliati e minacciati e spesso uccisi, gli Internati Militari Italiani seppero mantenere il punto e la dignità, fino in fondo. "Fu una prova tremenda: i nazifascisti volevano che ci arruolassimo nel loro esercito. No fu l'unica risposta che ebbero da noi. Ci chiamavano traditori" Amaro destino, quello di quegli uomini. A guerra finita pesò sul loro capo persino il sospetto della collaborazione con il nemico: non si sarebbero opposti attivamente al regime, limitandosi al rifiuto di combattere e "accettando" la prigionia nei Lager tedeschi! Anche di questa ingiustizia vuol far giustizia La prova, ma non solo. È, prima di tutto, un omaggio alla memoria dei grandi italiani che furono protagonisti di quella pagina eroica di resistenza alla dittatura: Lazzati, Rebora, Olivelli, Guareschi, Novello, Natta, Rigoni Stern… Prendo il volume, ne guardo la copertina: dietro il titolo, un palo e quel filo spinato che troppi revisionismi oggi vogliono negare o giustificare. Apro e nel risvolto di copertina mi colpiscono due frasi, una di Michelangelo (legato e stretto, e son libero e sciolto?), l'altra di Campanella (Hac poetica ratione roboravi etiam amicos ne in tormentis deficierent: con questa poesia ho dato anche agli amici la forza di non cedere alle torture). "Sono due autori cui sono molto legato artisticamente. Ad essi, e a Jacopone da Todi, ho dedicato tre cartelle di incisioni, tirate in numero limitatissimo e tutte "commentate" dagli scritti di autori famosi: Vincenzo Consolo, per Jacopone; Giovanni Giudici, per Campanella; Carlo Bo, per Michelangelo!" Con delicatezza fa passare davanti ai miei occhi le immagini: sono ispirate alle opere dei tre grandi, di cui si rielaborano e reinventano forme e motivi. Sono splendide tutte, dalle più elaborate - in ordine di tempo le ultime, dedicate a Michelangelo - alle più semplici - le prime, per fra Jacopone. Fra queste, una mi colpisce per la sua essenzialità: una croce, tramutata in inferriata di prigione, e una piuma, leggero simbolo di scrittura e libertà. Sembra suggerire un monito semplice ed essenziale. Ne faccio tesoro, rincuorato. Almeno in parte: si offuschino pure i tempi; si accaniscano legaioli e neofascisti; si sperimenti il "tanto peggio" da cui alcuni sembrano aspettarsi il "tanto meglio". Rimanere liberi e padroni di sé è possibile, in qualunque condizione. Io ne ho incontrato la prova vivente e giovanilmente gagliarda. L'eco del suo racconto mi accompagna nel viaggio di ritorno a casa; l'ottimismo che quell'antica disobbedienza mi ha donato, spero non mi abbandoni tanto presto.

in su pagina precedente

dicembre 2000