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Perché a Monza non c'è il mare?
Umberto De Pace


“Ma il mare dov'è?” – chiese a sua madre la piccola Bruna guardandosi intorno nel cortile austero di fronte all'edificio che un tempo ospitava le scuderie del Re. Ai suoi occhi da bambina la maestosa Villa Reale, i suoi giardini, le sue fontane, le aiuole, non riuscivano a colmare quel vuoto, che si era creato nel suo cuore. La piccola Bruna cercava il mare.
“Il mare qui non c'è” – rispose sua madre indaffarata a sistemare le poche cose che erano riusciti a portarsi appresso in due valige.
Bruna rimase perplessa; non poteva essere così. Sulle labbra sentiva ancora il sapore di salsedine, di fronte a lei spiagge bagnate da un mare limpido e la brezza leggera che le accarezzava i capelli, in lontananza non la Villa Reale ma delle isole e alle sue spalle, non le ex scuderie, ma boschi di pini marittimi e colline coperte di ulivi e vigneti.
“Bruna, Bruna, vieni qui a darmi una mano” – con in mano una bottiglia di vetro, sua madre la guardava sull'uscio e in quel momento anche lei non era all'interno di una stanza disadorna, in una città sconosciuta, ma nella sua casa contadina, dalle mura spesse, come spesso era il vetro della bottiglia dal collo lungo, color verde smeraldo, che teneva fra le sue mani. Teneva con cura la bottiglia, perché non era facile trovarne; perché due valigie non potevano contenere tutto ciò che rende una vita famigliare, quotidiana, ma solo quanto vi è di più utile e caro. Come le bottiglie di vetro che fino a poco tempo prima, trovavano posto all'interno della credenza di ciliegio, con le ante intagliate, le maniglie ricurve, le vetrinette verdi decorate. La credenza, nella casa contadina dalle mura spesse.
“Dove la metto, mamma?”
“Per il momento appoggiala là nell'angolo”
Nella stanza i letti a castello, i materassi, le coperte e nulla più. Era il mese di settembre.
Suo padre le aveva assicurato che presto sarebbero arrivati i loro materassi, li aveva spediti dal paese prima che partissero. Arrivarono tre mesi dopo. Le suppellettili consistevano in un asse di legno per lavare, con il piano ondulato su cui sfregare i panni, che all'occorrenza, girato sul lato opposto e poggiato sulle ginocchia, serviva da tavolo, su cui poter mangiare seduti sul letto.
Bruna non era triste per questo, Bruna era una bambina, e poi, arrivati a Monza quella sera non erano soli, altre dodici famiglie li avevano accompagnati nel lungo viaggio e altre ancora erano lì sul posto, ad accoglierle; chi con un bicchiere di latte, chi con un caffè, e poi i saluti, lo scambio reciproco di notizie su chi era rimasto e chi invece era partito. In fondo provenivano tutti da quel triangolo di terra, che si era già svuotato prima e continuava a farlo tuttora.
Era l'anno 1956.

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Foto davanti alla Villa Reale per la prima comunione

Il campo profughi, all'interno della Villa Reale, per la piccola Bruna, era come un villaggio, piccolo anch'esso: lo spaccio, gestito da alcuni compaesani; il direttore del campo, con la sua famiglia – veniva anch'egli da lontano, da Roma, ma viveva li con loro; l'ambulatorio medico, dove il dottore veniva una volta alla settimana per i bisognosi di cure; il reverendo cappellano. Ma non fu un gioco, in quel campo Bruna trascorse quattro lunghi anni e una manciata di mesi. Fu in quel campo che Bruna scoprì, non solo che a Monza non c'è il mare, ma anche, che quel lungo viaggio, che la portò lì vicino a Milano, era un viaggio di solo andata.

prima comunione 2

“A Milano c'è il lavoro” – diceva spesso sua mamma, e fu così che gli giunsero molto vicino. Da quella maledetta volta però, Bruna non volle più viaggiare: “perché viaggiare per me vuol dire lasciare un posto sicuro per andare dove non so".
E questo non è giusto, tanto più per una bambina, perché una bambina, anche se non dice, percepisce, anche se mostra indifferenza, una bambina, assorbe ciò che la circonda, e soprattutto non dimentica.
“Quando raccontate dei fatti, dovete sempre raccontare la verità” – così al suo paese natio, la maestra le ricordava ogni volta e Bruna aveva assorbito anche quell'insegnamento. Tant'è che quando la sua nuova maestra Villa, alla scuola elementare pubblica “De Amicis” di Monza, diede un tema in classe dal titolo “Com'è la vostra casa?”, Bruna pur perplessa, seguì quell'antico insegnamento.

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“L'addolcisco un po', però io racconto la verità” – si disse fra se e se, seduta al banco, con il pennino pronto per essere imbevuto nell'inchiostro del calamaio – “la racconto, si” – anche se la verità gli scottava un po': il suo arrivo in città, la stanza al campo, il letto per dormire e per mangiare, l'asse da lavare e a mo' di tavolo sulle ginocchia.
“Però mia mamma è molto brava e tiene tutto lindo e in ordine” – pensava con orgoglio, mentre scriveva in bella calligrafia. Una volta terminato, era soddisfatta del suo compito, ignara che quel suo tema sarebbe passato di mano in mano tra lo stupore, la curiosità e … l'indignazione.
“Ma insomma, questa sua figlia, cosa va in giro a raccontare!” – il direttore del campo, presa da parte sua madre, si lamentava, della verità raccontata, da una bambina, che non poteva far altro che raccontare la verità. In fondo non era colpa sua, era ancora bambina.

E fu così che Bruna scoprì non solo che a Monza non c'è il mare e che il suo lungo viaggio era di sola andata, ma tante altre cose ancora.
Scoprì che era povera, molto probabilmente lo era sempre stata, ma che importa ad una bambina, essere o pensare di esser povera, se intorno a lei ci sono i suoi genitori, i nonni, la casa dalle mura spesse, un po' di terra, i vigneti, gli ulivi; cosa importa quando gli altri che ti circondano parlano la tua stessa lingua e hanno anch'essi una casa dalle mura spesse, un po' di terra; ma soprattutto, cosa importa, se di fronte a te c'è il mare.
Qui a Monza, oramai, gliela ricordavano tutti la sua povertà: le sue compagne di classe da quel giorno – alcune, non tutte – iniziarono a portargli dei regali, chi una vestaglietta, chi un paio di scarpe. Il papà di una di loro, addirittura volle visitare la sua “casa”. Trovò tutto come lo aveva descritto Bruna, sui fogli a righe larghe di seconda elementare, compreso l'asse da lavare e per mangiare.

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Il giorno dopo, lo stesso papà, tornò con un tavolo, delle sedie e una radio. La piccola Bruna non credeva ai suoi occhi, che sgranati e luccicanti come grandi perle, guardavano attenti quell'oggetto straordinario e magico, che riportava, alle volte gracchiando, voci lontane, musiche e canzoni. Furono giorni difficili per Bruna, ma la radio, la radio fu per lei un regalo meraviglioso.
Quante cose doveva ancora scoprire Bruna a Monza. Ad esempio che la toppa alle volte è peggio dello strappo.
Don Cairo, parroco della cappella della Villa Reale, saputo delle vicissitudini accorse nella scuola elementare, ma soprattutto delle voci che circolavano sempre più insistentemente sulle piccole studentesse profughe, decise di porre fine alla vicenda, invitandole ad andare a scuola dalle suore, facendo abbandonare loro la scuola pubblica.
Bruna si trovò così ospite della Beata Capitanio, che era una specie di succursale del Collegio Bianconi. Dalla padella alla brace, qui la differenza con gli altri compagni di classe, era ancora più marcata, ma Bruna non se ne diede pena e con determinazione frequentò la nuova scuola fino alla quinta elementare.
“Mamma, perché tu e papà non parlate più come prima?”
“Perché è meglio così Bruna, imparerai prima bene l'italiano” – Bruna non sapeva che la maestra aveva chiesto ai suoi genitori di non parlare la loro lingua in casa, ma in italiano. Com'è strana la vita si disse, ripensando a quello che i suoi genitori gli raccontavano di un tempo lontano, in cui uomini vestiti di nero con in testa uno strano berretto –
una specie di secchiello ornato da un ciuffo penzolante – volevano anch'essi che si parlasse solo italiano e in nessuna altra lingua che non fosse la loro. E poi ancora quando arrivarono uomini vestiti di verde, con una stella rossa sul berretto – una specie di bustina – i quali vollero che non si parlasse più italiano, in tutte le altre lingue della zona, ma non in italiano.
Comunque sia, Bruna a Monza, iniziava a trovarsi bene e così imparò in fretta anche la lingua. La curiosità di bambina, la voglia di imparare, di crescere, di diventare grande, l'aiutava a superare le difficoltà del momento. Ad aiutare i suoi genitori, ci pensò invece il lavoro. Si, trovare un lavoro non fu poi così difficile e con il lavoro, si sa, tutto è più facile.
Certo, il buono e il cattivo c'erano anche allora, come sempre. “Siete venuti a rubarci il lavoro!” – si sentì apostrofare un giorno sua madre per le vie cittadine, da uno sconosciuto che tentò di fermarla.
Ancora oggi Bruna sente questa frase ripetuta alle volte dai suoi concittadini monzesi, pochi in verità, oggi come allora. Quando le capita di sentirla, pensa ai suoi genitori che non avevano mai rubato niente in vita loro, ma solo e sempre lavorato duramente per guadagnarsi di che vivere; pensa inoltre agli uomini e alle donne che spesso incontra per le strade di Monza, con un colore della pelle e una lingua diversa dalla sua, convinta che anche loro siano qui nella sua città non per rubare ma spinti dal bisogno; pensa infine che il buono e il cattivo appartengano all'umanità intera, non a un popolo o a una comunità. E' un'altra delle cose importanti, che Bruna ha imparato da bambina. Anche nel campo profughi della Villa Reale, c'erano due o tre tipi che, si sapeva, non erano proprio delle brave persone, avevano la mano lunga. Come rubavano fuori, rubavano anche lì nel campo: biciclette, motorini, cose così.
Appena arrivati a Monza, sua madre iniziò a fare i servizi presso alcune famiglie. Il papà, pur malato – soffriva di una miopia degenerativa – cercava anche lui un lavoro. Girava tutto il giorno, di qua e di là per la città, ma non solo, e di certo la sua miopia non lo aiutava nel trovare un lavoro, adatto alle sue possibilità. Un giorno però tornò a casa con un gran sorriso in viso e annunciò: “Sono stato assunto alla Singer. Un contratto a termine di sei mesi, ma ci sono buone possibilità che me lo rinnovino”. Gli fu in effetti rinnovato una prima volta come promesso, poi un breve periodo senza lavoro, quindi un nuovo contratto a termine. L'ultimo, dopo il quale fu assunto a tempo indeterminato.
Nel frattempo la mamma, aveva trovato, nel periodo sotto Natale, un lavoro a l'Alemagna, quella dei panettoni. Un lavoro stagionale, pur continuando a fare i mestieri. Erano gli anni, in cui la grande Milano, aveva bisogno di tante braccia per lavorare e alla fine anche la mamma di Bruna approdò in una fabbrica: la Magneti Marelli a Sesto San Giovanni.
Tutte e due i suoi genitori avevano così un buon lavoro, erano entrambi operai. E ciò era una garanzia per una vita dignitosa e serena, ma anche motivo di orgoglio. Gli operai allora erano una classe, una classe che se pur non riuscirà ad arrivare in paradiso, alla pensione, di sicuro c'è arrivata.
Bruna da bambina, percepiva tutto ciò; quando i suoi genitori erano preoccupati o quando erano sereni. E scoprì, che dietro a questo stato d'animo, c'era innanzitutto il lavoro. Quando si lavorava era tutto diverso.
“Domani Bruna arrivano gli zii, aiutami a sistemare la stanza qui accanto alla nostra, si fermeranno un po' di tempo qui da noi”
“Perché mamma?”
“Perché non c'è lavoro a Massa Carrara, dove stanno adesso, e allora … su dai, vieni ad aiutarmi”
E così arrivò lo zio di Bruna, con la sua famiglia, la moglie e due ragazzi grandi. Avevano sentito che a Milano di lavoro, ce n'era di più. Si fermarono per un po' di mesi, fino a quando non riuscirono a sistemarsi autonomamente in due nuovi locali. Prima di loro era già arrivata una nipote del papà, che era orfana, e stette con loro per un paio d'anni. Per Bruna l'ospitalità è una caratteristica della sua terra, è una questione di mentalità ancor prima che di necessità.
“Tra vicini, se tu hai bisogno, chiedi, non c'è problema” – così diceva sua nonna. La nonna, quanto le mancava. Forse più del mare. La vide solo anni più tardi, quando già avevano abbandonato il campo profughi, avendo comprato una piccola casetta a Brugherio, grazie all'eredità lasciata da una zia.
La prima volta che la nonna venne a trovarli, espresse il desiderio di rimanere con loro e fu così che iniziò la via crucis per la richiesta del visto turistico, scaduto il quale, per ottenere la cittadinanza italiana, avrebbe dovuto fare tutta la trafila attraverso i campi profughi. Un paio d'anni, dicevano, e sarebbe potuta venire da loro. Qualche mese a Caserta, poi al campo profughi di Trieste, e lì che Bruna andò a trovarla, non lo dimenticherà mai. Aveva sedici anni quando prese il treno Monza-Milano e poi per Trieste, dove l'avrebbe ospitata uno zio. Durante il viaggio ricordava la nonna, sempre presente quando le vicissitudini della dura vita di quei tempi, tennero lontano per lungo tempo i suoi genitori da casa. Bruna si legò così tanto a lei, che a forza di sentire le sue figlie che la chiamavano mamma, iniziò anche lei a chiamarla mamma.
Scesa dal Treno a Trieste, volle andare subito a trovarla. Arrivata al campo profughi chiese di poterla incontrare. Controllati i documenti, una delle guardie la accompagnò per un lungo corridoio, dai soffitti alti e i grandi finestroni, fino ad un piccolo localino, una specie di guardiola, dove li attendeva un'altra guardia del campo, un tavolino e due sedie. Di lì a poco, da una porticina sul lato opposto, Bruna finalmente vide entrare sua nonna. Il suo cuore ebbe un sussulto, ma il corpo non rispondeva, irrigidito, come quello della guardia, che stazionava a lato del tavolino e non aveva alcuna intenzione di andarsene; anche le parole, facevano fatica a uscire, in quella stanza angusta e grigia.
“Come stai nonna …” – riuscì a sussurrare, prendendole le mani fra le sue, stese sul tavolino di legno che le divideva.
“Be-ne … “ – la nonna, rispondeva a monosillabi. Si fissarono negli occhi, senza dire niente, senza riuscire entrambi ad esprimere la moltitudine di pensieri, ricordi, sentimenti, accumulata nella lontananza forzata e in quel momento imprigionata, che poterono trovare in Bruna sfogo, solo nelle lacrime che l'accompagnarono quella sera verso casa.
“Ma come è possibile, trattarci in quel modo, non siamo dei delinquenti” – ritornata a casa, Bruna cercò consolazione fra le braccia della madre, raccontandogli la sua triste esperienza al campo profughi di Trieste.
“Qui da noi a Monza, il campo profughi sì che era valido! Dovevi vedere lì a Trieste, sembrava un carcere, e poi … guarda che foto … hanno fatto alla nonna …” – Bruna porse alla mamma la foto. Un mezzo busto, con un cartello sul petto, che riportava un numero di matricola.

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“Quando ho visto questa foto, mi è ritornato alla mente un libretto, che ho visto poco tempo fa, con su i deportati nei campi di concentramento nazisti”. Bruna si era proprio spaventata quella volta, era ancora una ragazza e non bastarono le assicurazioni di sua madre, sul fatto che quello di Trieste era un campo di transito, dove i profughi venivano registrati e quindi smistati, appena tutti i documenti e i luoghi di accoglienza fossero pronti.
“Ma mamma, noi nel campo profughi di Monza, abbiamo potuto addirittura ospitare altre persone, è possibile che in una stessa epoca, in un altro campo profughi, la situazione sia così diversa?”
Fortunatamente, poco tempo dopo, la nonna ottenne il permesso di raggiungere i suoi famigliari a Brugherio e Bruna poté così abbracciarla, questa volta senza guardie che le sorvegliassero.
Non durò a lungo. Stava per ottenere la cittadinanza italiana, quando una delle sue figlie, rimasta là dove c'è il mare, si ammalò gravemente.
“Devo tornare, non posso più stare qui, hanno bisogno del mio aiuto” – così la nonna, che Bruna aveva tanto desiderato, tornò nella loro terra, dove altre figlie, nipoti, l'attendevano. Tornava là, nella casa dalle mura spesse, dove si viveva per lo più all'aperto, dove erano gli affetti, i cari, dove c'era tutto ciò che a Bruna mancava.
Bruna oramai era una giovane donna, aveva iniziato a lavorare in una ditta di vernici a Brugherio, insieme a diverse altre ragazze più o meno della sua età. E con il lavoro, Bruna scoprì l'impegno sociale e sindacale, le lotte dei lavoratori per il contratto, la conquista di nuovi diritti e migliori condizioni di lavoro. Ma soprattutto scoprì la possibilità di poter condividere con altri, sogni, pensieri, ideali.
Era il 1968.
A Bruna tutto ciò sembrava una conquista, una cosa molto bella. Era come scoprire che anche dal basso si poteva fare e ottenere qualcosa. Erano tutte piccole scoperte, ma erano scoperte importanti. Le amiche di Bruna erano bresciane, bergamasche, milanesi, e un problema in effetti c'era: quando parlavano in dialetto, Bruna, non capiva.
“Va bene parlare italiano, ma queste parlano ancora un'altra lingua! Non la finiamo più qui!” – si scherniva con sua madre.
Imparò così a comprendere anche i dialetti, dopo aver compreso quale lingua doveva parlare e che alle volte il viaggio è di sola andata; dopo aver compreso che la povertà non è uguale per tutti e in tutti i luoghi e che non tutte le case hanno le mura spesse; dopo aver compreso che non tutti i campi profughi sono uguali e che una persona, pur desiderandolo, non può stare in due posti contemporaneamente; dopo aver compreso che il lavoro è fonte non solo di sostentamento, ma anche di serenità e dignità; dopo aver compreso che i buoni e i cattivi non hanno un colore della pelle o una lingua particolare; dopo aver compreso tutte queste cose, per Bruna, i dialetti erano tutt'al più uno scherzo della natura.
Bruna è tornata a vivere a Monza, oramai da molti anni e in tutto questo tempo ha serbato nel suo cuore, come in uno scrigno, tutto ciò: gioie e dolori, nostalgie e passioni, paure e angosce, sogni e desideri, ma soprattutto, ha serbato la capacità di scoprire sempre cose nuove, di guardare con fiducia sempre al domani, come quella volta, tanti anni fa, da bambina, quando scoprì che a Monza non c'è il mare.


Bruna è nata a Peroj, comprensorio del comune di Dinamo in Istria, dove ha vissuto fino all'età di sei anni, per poi trasferirsi nella vicina Fasana. Nel 1956, con la sua famiglia abbandona l'Istria per trasferirsi definitivamente in Italia. Dopo aver transitato per i campi di smistamento di Trieste e Cremona, giunge a Monza nel settembre di quell'anno.

Il racconto ha vinto il secondo premio del 3° concorso letterario “Storia e Storie della Brianza” organizzato dall'Associazione Mazziniana Italiana – ONLUS sezione di Monza e Brianza.


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  20 dicembre 2009