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L'ultimo esperimento
Un racconto di Andrea Frova


laser

        Ciac, fece il laser, accompagnando lo schiocco con un bagliore intenso di luce violetta. Anna ebbe un sussulto, come colta alla sprovvista, quasi non fosse stata lei stessa a premere la leva d'innesco. - È la sensazione di sventura imminente che ti prende ogni volta che accendi uno strumento nuovo - commentò tra sé e sé.
        Il nuovo laser era collocato al centro del laboratorio, una stanza di media grandezza affollata di ogni genere di strumenti e apparecchiature e percorsa in lungo e in largo da intricate matasse di cavi elettrici. La parte vitale del laser era costituita da un tubo di quarzo lungo un paio di metri, disposto orizzontalmente su un banco ottico di fattura casalinga, strati sovrapposti di legno, granito e polistirolo, a loro volta poggianti su camere d'aria rigonfie a contatto con il pavimento.
        Per le esigenze di Anna, era davvero una macchina prodigiosa: agiva in modo intermittente, caricandosi al massimo di energia, per poi sfogarsi in brevi lampi brucianti a intervalli eguali di decimi di secondo. Ogni impulso di luce era accompagnato da un sonoro e rapido schiocco, vagamente fastidioso, simile a quello che si produce vibrando nell'aria una scudisciata.
        - Che bagliore! - esclamò Anna, la mente attraversata da un pensiero che già altre volte, in analoghe circostanze, l'aveva intimamente turbata: quali sensazioni fisiche e mentali avrebbe provato se le fosse occorso di guardare frontalmente il pennello luminoso del laser, quello che i profani chiamavano il raggio della morte? Un giorno, in America, era accaduto che una parte del raggio fosse stata accidentalmente deflessa verso il suo volto. Per una durata infinitesima di tempo - il tempo di serrare le palpebre - lei aveva sperimentato, oltre all'abbacinamento, uno stimolo esplosivo a livello cerebrale, al di sopra delle emozioni più violente. Di questa esperienza aveva conservato una traccia indelebile, una zona priva di sensibilità al centro della retina. Essa faceva apparire nel suo campo visivo una piccola macchia orlata di nero, circolare, che diveniva ben percettibile, con il suo moto fuggente, in particolari circostanze: per esempio quando Anna, sullo sfondo di un cielo azzurro di montagna, lasciava lo sguardo perdersi in assenza di riferimenti.
        Anche a causa di questa singolare presenza, quell'episodio le era rimasto impresso nell'animo: aveva aperto uno spiraglio su una realtà temibile, eppure di immediato accesso. Era da allora che, nella penombra del laboratorio, dove il fascio violetto del laser - una sottile striscia di luce sospesa a mezz'aria - intesseva una fitta ragnatela orizzontale riflettendosi più e più volte sugli specchi e sui prismi del banco di lavoro, Anna aveva spesso provato l'impulso acuto di chinare deliberatamente la testa a interrompere il filo per ricevere tutta insieme sulla retina la fantastica potenza luminosa della macchina.

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        Propensioni del genere, nella sua vita, non erano infrequenti. Qualcosa di simile avvertiva allorché si trovava arrampicata in roccia, i piedi insediati su una cengia sottile e il vuoto vertiginoso sotto di sé. In quei momenti, se le occorreva di volgere lo sguardo alla base della parete, cinquecento, mille metri più in basso, non poteva fare a meno di pensarsi nell'atto di lasciare la presa e farsi inghiottire dall'abisso. O anche quando, guidando l'utilitaria per i viali della città, guardava i grandi autobus che le correvano incontro minacciosi e immaginava di sterzare bruscamente per lanciarsi in una distruttiva collisione frontale. Se c'era una cosa che le sarebbe piaciuto sperimentare, era la percezione cosciente degli attimi che precedono un passo senza revocabilità. Un Gedanken experiment, naturalmente, che rimaneva allo stadio di oziosa congettura. Meditazioni del genere, però, le consentivano di trarre qualche compiacimento dalla constatazione che, in tali frangenti, aveva il pieno controllo delle scelte.
        - Controllo di che… controllo dell'irreale! - si corresse subito, seguendo il consueto filo di pensieri. Che poteva dire, infatti, dello scenario reale in cui si muoveva? L'opposto esatto! Il suo radicato scetticismo - il grande capo della fisica italiana la definiva senza mezzi termini una disfattista - non le lasciava intravedere molte possibilità. Tutto il sistema in cui Anna operava era in crescente degrado: le disfunzioni erano divenute endemiche, la voce degli esperti trovava sempre meno ascolto. La competenza non era condizione sufficiente per le scelte culturali e scientifiche, e ancor meno necessaria. Le decisioni venivano prese nell'ambito ristretto di gruppi clientelari, da pseudoesperti divenuti in qualche modo fiduciari del governo.
        Dunque nessun controllo… Bastava pensare al laser che brillava di fronte a lei: era giunto nel laboratorio dopo un'attesa che aveva superato le più nere previsioni. Tra proposta al Gruppo Nazionale, approvazione, inoltro dei formulari al Consiglio Nazionale delle Ricerche - il labirintico CNR - altra approvazione, stipula del contratto tra CNR e Rettore, stanziamento, accredito, effettiva disponibilità dei fondi, ulteriore approvazione, emissione dell'ordine, consegna e installazione: fra tutte queste procedure, erano passati tre anni!
        Nel laboratorio, assieme ad Anna, c'era il più anziano dei suoi collaboratori, Marco De Blasi. Si aggirava attorno all'apparecchiatura del laser, indaffarato a compiere spostamenti micrometrici di lenti e specchi per l'allineamento dell'ottica. Anna si sorprese incantata ad osservare come le sue dita scivolassero sulle varie parti del sistema con raffinata abilità, quasi affettuosamente. Marco lavorava con lei da circa dieci anni, da quando Anna era rientrata dagli Stati Uniti e lui, timido studente tutto libri e nozioni teoriche, si era presentato in cerca di una tesi di laurea. Era il 1967. Il loro rapporto si era trasformato nel tempo fino a diventare un fecondo sodalizio scientifico, in cui alle accanite discussioni si contrapponeva una fiducia reciproca pressoché totale. Facevano una coppia curiosa: quanto lei era piccola, esile e bruna, tanto lui era alto e biondo da parere uno scandinavo. Lei morbida e attraente, lui rigido e segaligno come un Cristo appeso alla croce. E anche i caratteri erano contrastanti, perlomeno nel senso che ognuno dei due faceva del suo meglio per non trovarsi troppo facilmente d'accordo con il partner. Atteggiamento eccellente, d'altronde, nell'ambito della ricerca scientifica.

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        Pressoché giunto alla fine delle operazioni di allineamento dell'apparato ottico, Marco cominciava a divertirsi. Di tanto in tanto prendeva delle striscioline di stagnola e le faceva fondere inserendole lungo il tragitto del fascio luminoso. Oppure apriva, tra nuvolette di fumo, degli occhielli circolari in un ritaglio di cartoncino nero.
        - Però, che forza! - ripeteva ogni volta con vivo compiacimento, quasi faticasse a convincersi che quello strumento, alla fine, fosse realmente entrato a far parte della dotazione del laboratorio. - Di luce ce n'è anche troppa, non vorrei prendermela in un occhio!
        - Già - fece Anna. - Mi domando se ci sarà rimasto qualche margine di tempo su tedeschi e americani…
        - Diavolo, Anna - sbottò Marco, cambiando umore. - Se mi dessi una mano, potremmo mettere a punto l'esperimento prima di sera -. Era chiaro che avrebbe mal tollerato l'idea di ritardare l'inizio delle misure oltre l'indomani.
        - Hai ragione, passami un paio di occhiali protettivi. È che non riesco ancora a capacitarmi… siamo davvero al via dell'esperimento?
        - Attenuo la potenza del laser - fece lui, inserendo nel fascio luminoso un filtro di vetro scuro. - Non vorrei che finissimo per scottarci le dita!
        Ad Anna parve che la pulsazione del laser avesse un che di vivo, come un liquido fiotto di luce pompato da un cuore in un'invisibile arteria. Avvertì per quella macchina - una macchina che altri uomini, in altri paesi, avevano saputo concepire e realizzare - uno strano coinvolgimento emotivo, un'attrazione non più fredda e distaccata, ma quasi fisiologica. Era uno stato d'animo simile a quello che in lei suscitavano, nelle circostanze adatte, le musiche che amava.
        Accomodò l'ottica in modo che il fascio di luce, al termine del suo zigzagante tragitto, risultasse focalizzato sul cristallo di semiconduttore. Investito dal lampo violetto del laser, questo riemetteva per fluorescenza un bagliore rossastro, che disegnava ombre sanguigne sulle pareti del laboratorio. Lo sfolgorio cromatico ebbe l'effetto di accrescere ulteriormente il turbamento di Anna. Eppure non era nuova a spettacoli del genere, avendovi già assistito in laboratori d'oltre oceano.
        - In America è diverso, in quel contesto i prodigi della tecnica appaiono congrui. La ricerca scientifica è un fattore primario, strutturale. Non deve difendersi dalla retorica degli umanisti o misurarsi con i problemi fittizi dei filosofi -. Si chiese una volta di più il perché del suo rientro in Italia. Scelta deliberata: come aveva mai potuto illudersi di trovare soddisfazione in un paese tanto squinternato?
        - Povera Italia, così ricca di valori e insieme così cialtrona! Mi è troppo cara per non odiarla di cuore… - disse, mentre Marco si era arrampicato sulla scaletta di metallo per armeggiare, vicino al soffitto, con le valvole da vuoto del criostato. Rispose brusco:
        - Secondo me, Anna, l'America ti ha viziata: non hai più spirito missionario.
        - Non c'è via di uscita, Marco, nell'assalto alla scienza sono tutti d'accordo. Mette a nudo i falsi, esige la verifica dei conti, questiona il potere stesso. Una scienza di qualità se la può permettere solo un sistema di qualità.
        - Per poco che facciamo, Anna, aiutiamo a tenere acceso il fuoco della ragione. A spegnerlo basta un niente. A farlo rivivere occorrerebbero generazioni. Verrà pure un futuro in cui il paese saprà servirsene.
        - Saremo ancora qui per viverlo? Io temo di non resistere a lungo -. Il pensiero di Anna riandò con nostalgia all'entusiasmo di anni prima, ai tempi in cui Marco era un giovane borsista e poteva accadere che con il resto del gruppo passassero l'intera notte al laboratorio in un serrato susseguirsi di misure e di discussioni. Adesso, due tra i collaboratori più anziani avevano preso la via dell'America; i migliori delle ultime leve erano anch'essi dovuti emigrare in vista di un perfezionamento che forse non sarebbe mai stato utilizzato dal paese. Altri erano costretti a barcamenarsi con occupazioni esterne - insegnamento nella scuola secondaria o in sedi lontane - che non lasciavano spazio alle attività di ricerca. Gli studenti, poi, come si poteva contare sul loro impegno quando il futuro era tanto poco incoraggiante? Marco era diventato il perno di tutto: il giorno in cui si fosse lasciato andare, sopraffatto infine dalle condizioni avverse…
        Si rimise al lavoro, ma non le riusciva di operare che in modo distratto e meccanico. Allo sconcerto che l'aveva colta poco prima osservando la prodigiosa realizzazione tecnologica che aveva dinnanzi, era subentrata l'apatia, né riusciva a elettrizzarla il pensiero che l'indomani, se non c'erano imprevisti, lei e Marco avrebbero potuto conseguire il risultato al vertice dei loro sforzi.
        Durante l'attesa che aveva preceduto l'arrivo del laser, erano stati costretti a rielaborare più volte il progetto di esperimento, nell'esigenza di tenere il passo con la competizione internazionale, che aveva tempi di realizzazione tre o quattro volte più brevi dei loro. Il traguardo da raggiungere si era andato spostando sempre più in avanti, e ora non restava che puntare sull'esperimento più ambizioso: l'attivazione, in un cristallo di semiconduttore, del plasma elettronico.
        Ciò si rendeva possibile - in particolarissime condizioni sperimentali, a temperature prossime allo zero assoluto - grazie all'estremo stato di eccitazione indotto nel materiale dalla radiazione laser. Gli elettroni, nel tornare alle condizioni di equilibrio, avrebbero a loro volta emesso radiazione luminosa, rendendo il cristallo simile a un minuscolo, brillante astro solare.
        Il fenomeno era di grande importanza conoscitiva per l'intima costituzione della materia, ma le sue possibili applicazioni non erano meno allettanti, soprattutto al limite di massima potenza del laser, dove il plasma elettronico sarebbe andato sotto pressione, manifestando nuovi effetti, come variazioni di colore della luce prodotta.
        Eppure, a dispetto di queste prospettive, sulla cui realtà le loro stime teoriche non lasciavano motivi di dubbio, Anna avvertiva il peso di un oscuro presentimento. Le pareva di essere come esclusa dall'azione, svuotata di motivazioni, e guardava lo sfolgorio luminoso del cristallo con occhio distaccato. Si rese conto che il suo stato di insoddisfazione era in parte dovuto a un crescente vuoto di stomaco, del tutto plausibile, d'altronde, vista l'ora avanzata.
        - Io propenderei per andarcene, Marco, tutto si direbbe a punto, ormai.
        Marco scese dalla scaletta, si pulì le mani con uno straccio, poi sembrò ripensarci:
        - Io faccio ancora qualche controllo; quando le cose marciano, non conviene mollare. A domani. Arriva presto, mi raccomando!
        Anna fece rapidamente fagotto e lasciò il laboratorio. Fuori la attendeva, nell'oscurità incipiente della tiepida sera primaverile, la vetturetta con cui quotidianamente affrontava la doppia traversata della città. Nell'aprire la portiera, pensò che il percorso era lungo e tortuoso, e congestionato dal traffico del rientro serale; ma anche che, metro dopo metro, lo avrebbe esaurito. - Come un'arrampicata in montagna - disse mentalmente, - un salto immenso che l'uomo supera col suo microscopico passo. Come il nostro esperimento, come la vita -. Si avviò verso il cancello d'uscita dalle mura che rinserravano l'università come una cittadella, e si immerse nella baraonda assordante del traffico romano.
        Quella sera, per addormentarsi, dovette ricorrere a una pillola di sonnifero. Si assopì, dopo questa ormai non rara operazione, in un tranquillo sonno innaturale.

* * *

laser 3

         Alle otto in punto, alquanto prima del suo normale orario, Anna - vestita di blue-jeans e maglietta girocollo di cotone - fece il suo ingresso nel laboratorio. Trovò Marco in piena attività. - Ciao - gli disse. - Hai sentito che oggi ci sarebbe di nuovo sciopero?
        - Se pensi che me ne importi… Scommetto che oggi entrerà anche Floriano, per quanto possa ripugnare alla sua coscienza di lavoratore.
        - Credo anch'io, c'è una prima volta per tutti…
        - Il laser è avviato: sto controllando la strumentazione elettronica.
        - Ah, bene - fece Anna, curiosando in giro.
        Come avevano previsto, Floriano giunse di lì a pochi minuti. Non avrebbe potuto permettersi un giorno in bianco, dato che i suoi impegni didattici a Camerino non gli consentivano che rapide parentesi di ricerca scientifica. Entrò sbadigliando un - Salve, come va? - strascicando i piedi e ondeggiando le spalle come se non gli fosse ancora riuscito di ingranare bene le articolazioni dopo essersi alzato dal letto. Malgrado quest'aria ciondolante, in lui del tutto normale, Floriano si mise prontamente al lavoro, senza fare commenti sullo sciopero in corso. Al contrario, parve ad Anna che anche lui trafficasse con insolito gusto.
        Trascorsero l'intera mattinata lavorando alacremente e scambiando battute scaramantiche per alleggerire la tensione. Verso l'una non rimaneva che da raffreddare il cristallo. Per l'esperimento, esso doveva essere portato a 271 gradi sotto lo zero, ossia nelle immediate vicinanze dello zero assoluto. Ciò comportava il trasferimento nel sistema criostatico, già raffreddato con l'azoto liquido, di diversi litri di elio liquido, un'operazione che decisero di rimandare a dopo colazione.
        Rimasero assenti dal laboratorio un tempo assai breve, quello che occorreva a ingoiare un paio di tramezzini e una birra al bar delle Scienze. Tra un boccone e l'altro avevano continuato a tracciare piani di lavoro per il pomeriggio, in modo da utilizzare nella maniera più proficua il tempo a disposizione. La durata dell'elio liquido, infatti, sarebbe stata limitata nel tempo, perché il calore dissipato dal laser non avrebbe permesso di estendere il suo tempo di evaporazione oltre le sei ore. Non potevano quindi permettersi esitazioni, incertezze, e tanto meno errori; ogni operazione doveva essere prevista in tutti i particolari. La discussione li rese sempre più infervorati, tanto che al rientro in laboratorio, dopo poco più di mezz'ora che ne erano usciti, si sentivano smaniosi di buttarsi sull'esperimento.
        Tutti e tre avvertivano acutamente l'importanza dell'ora. Anna stupì di provare sentimenti così vividi, sentimenti che credeva relegati per sempre alla sua adolescenza o tutt'al più alle prime esperienze di ricerca negli Stati Uniti.
        - Controlla il vuoto per favore - disse a Marco, mentre Floriano si preparava a inserire il condotto metallico per il travaso dell'elio liquido dal contenitore alla camera del cristallo. - Sembra tutto in ordine - rispose Marco, afferrando l'estremità della cannula che Floriano gli tendeva. I due procedettero con cautela ad introdurla nel criostato e iniziarono a pompare sul palloncino di gomma bianca per far fluire al suo interno l'elio liquido.
        - Potreste anche decidervi a sostituire quel profilattico con qualcosa di più professionale - disse Anna.
        - Mai parti nuove nei momenti cruciali! - rispose Marco, premendo con garbo sul profilattico rigonfio.
        L'elio liquido scorreva nel condotto verso la camera del cristallo. Dapprincipio, al contatto con essa, che era meno fredda, l'elio si volatilizzava rapidamente, in preda a furiosa ebollizione. Dopo qualche minuto, Anna, che teneva d'occhio l'interno del criostato attraverso la finestra di zaffiro, esclamò:
        - Ecco, incomincia a prendere, lo vedo salire. Piano… andateci piano.
        L'operazione ebbe termine quando il livello dell'elio raggiunse la sommità del criostato. Allora Anna rischiarò il cristallo di semiconduttore, completamente immerso nell'elio liquido, con la piccola torcia elettrica che teneva in mano. Una miriade di bollicine danzanti lo avvolgevano, rendendone confusi i contorni.
        - Bolle da matti - disse.
        - Inizio subito a fare il vuoto sopra l'elio - fece Marco.
        - Okay.
        Il vuoto avrebbe permesso di abbassare ulteriormente la temperatura del sistema fino a rendere l'elio superfluido, con il che l'ebollizione si sarebbe arrestata. Durante questa operazione, Anna continuava a girare impaziente attorno all'apparecchiatura illuminandone le parti con la torcia, quasi ciò servisse a favorire il processo.
        - Ci siamo, è diventato superfluido: vedo il cristallo limpidamente come in un bicchier d'acqua. Floriano, che dice la temperatura?
        - Un grado e sei dallo zero assoluto.
        - Ci siamo, ragazzi, ci siamo. Avevo timore che oggi questi stupidi preliminari, fatti e rifatti tante volte, ci avrebbero tradito.
        Marco non poté trattenersi dall'alzare un braccio e fare le corna con l'indice e il mignolo. Floriano, alla sua maniera, si limitò a stringersi nelle spalle.
        - Allora - riprese Anna - se non vi sono venute nuove idee, si procede come stabilito. Per non rischiare la distruzione del cristallo, iniziamo con il fascio laser defocalizzato e aumentiamo gradatamente l'intensità luminosa. Il filtro neutro è a posto, vero? Se la transizione che cerchiamo non si vede, concentriamo la luce su un'area più piccola e ripetiamo passo passo tutto da capo.
        Indossarono all'unisono i grossi occhiali protettivi di plastica. Poi Marco si avvicinò al laser e tolse lo schermo di metallo che lo otturava. Subito il cristallo di semiconduttore fu investito dalla pulsazione violetta, guidata da lenti e specchi come su una rigida invisibile rotaia. La fluorescenza del cristallo era, questa volta, di un colore giallo aranciato, anziché rossa come nelle prove fatte il giorno innanzi a temperatura ambiente. Nell'oscurità della stanza, attraverso gli occhiali che attenuavano di molto la luce del laser, ma non la fluorescenza giallastra del cristallo, quest'ultimo appariva come una minuscola brace pulsante, incandescente e gelida allo stesso tempo. I suoi sprazzi di luce disegnavano a intervalli uguali, sullo sfondo degli strumenti, i volti occhialuti dei tre amici come immagini irreali di fantascienza.
        Floriano, che manovrava lo spettrometro, sintonizzò lo strumento sul massimo dell'emissione luminosa del cristallo. - Puoi andare - disse a Marco, che subito avviò il motore del filtro ottico posto sul cammino del laser. Il filtro, ruotando, offriva alla luce zone via via più trasparenti, cosicché l'eccitazione del semiconduttore e la sua fluorescenza crescevano con continuità. Il cristallo andava ora assumendo sempre più l'aspetto di un punto vividamente luminoso.
        - Massimo della potenza - disse Marco dopo alcuni minuti. - Diavolo, non ha funzionato. Io direi che la fluorescenza sia variata per gradi, senza cambiamenti di colore. E il plasma elettronico? Doveva produrre un brusco viraggio al verde!
        Floriano aveva scrutato per tutto il tempo la penna del registratore: a malincuore dovette confermare che non c'era stato alcun salto di continuità nel livello del segnale, il che stava ad indicare che la luce emessa dal cristallo al colore originale era cresciuta di pari passo con la potenza del laser, senza mostrare improvvise alterazioni.
        - Potenza insufficiente - commentò Anna senza dar troppo peso, e fece subito avanzare la lente di focalizzazione del laser di quattro millimetri, concentrando il fascio su un'area minore di cristallo.
        - Puoi ricominciare - disse rivolgendosi a Marco, il quale si affrettò a far scattare l'interruttore per un secondo ciclo di misure. Di nuovo non ebbero fortuna e l'operazione fu ripetuta, sempre senza successo, diverse volte, tra le rimostranze di Marco che si domandava per quale ragione si dovesse perdere tanto tempo, anziché fare subito la prova in massima potenza luminosa.
        Verso le sei di sera, la delusione cominciava a farsi strada nei loro animi. Secondo i calcoli, erano già pervenuti a un livello di potenza luminosa sul cristallo almeno tre o quattro volte superiore a quella stimata per la transizione di colore. Ma nulla di rilevante, assolutamente nulla, si era verificato.
        - Ci deve essere qualcosa che non va. Non può non esserci - continuava a ripetere come un automa Anna, con l'aria di chi non può e non vuole arrendersi all'evidenza. Quasi mai, durante il lungo periodo di incubazione dell'esperimento, aveva preso in considerazione l'eventualità di uno smacco. O perlomeno, non in maniera concreta, altrimenti non avrebbe avuto la forza di passare attraverso le vicende kafkiane che avevano segnato le fasi di maturazione dell'esperimento.
        - Impossibile - esclamò Marco - non abbiamo mai lavorato così pulito come oggi. Ogni dettaglio è stato meditato e controllato più volte!
        Anna scuoteva la testa; sapeva che dietro un risultato inaspettatamente assurdo si nasconde sempre un giro vizioso di procedimento, se non di sostanza, che viene sistematicamente ripercorso a dispetto di ogni logica apparente.
        - Dobbiamo aver fatto uno sbaglio… uno sbaglio da qualche parte, anche se tutto sembra funzionare in modo perfetto - ripeteva convinta, seguitando a scuotere la testa come per rimescolare le idee e interrompere un circolo chiuso che vi si fosse insediato. - Occorre rimettere in discussione tutto, ogni fase dell'esperimento, a partire dall'inizio.
        Floriano era scettico:
        - Ci avrei scommesso. Maledizione, perché non le lasciamo fare agli americani queste cose complicate?
        Ci fu una pausa, istanti di interminabile lunghezza. Marco toccava meccanicamente le varie parti dell'ottica, quasi che l'impercettibile variazione di un qualsiasi dettaglio del sistema potesse operare il miracolo. Improvvisamente esplose come un fuoco d'artificio:
        - No, no, no, diavolo, il prisma… come abbiamo potuto scordarci quel prisma fottuto!?
        Floriano e Anna ebbero un sussulto, strappati all'inutile giro delle loro riflessioni.
        - Di che prisma dannato vai parlando - esclamò Anna, nello stato d'animo di chi è pronto a riacquistare speranza sulla scorta di una parola pronunciata a caso.
        Marco era quasi in preda all'orgasmo: - Ieri sera ho tarato la potenza del laser eliminando buona parte del raggio col beam splitter, il prisma separatore: non mi risulta che l'abbiamo rimosso!

Seguì un attimo di incertezza. Poi i loro occhi corsero insieme alla parete più remota del laboratorio: là, al primo lampo del laser, apparve in bella evidenza una grande macchia violetta, testimonianza che gran parte della potenza luminosa era deviata dal cammino verso il cristallo.

        - Diavolo, per forza che non si vedeva un accidente, il novanta per cento della luce va a perdersi! -. Marco aveva quasi le lacrime agli occhi, Anna e Floriano erano completamente ammutoliti. Quella macchia luminosa sul muro, che per un caso davvero bizzarro nessuno dei tre aveva fin allora notato, ebbe l'effetto di trasformare il loro scoramento in fiduciosa certezza: ora sapevano, senza più ombra di dubbio, di avere il risultato a portata di mano. Tolto il prisma dal cammino luminoso, iniziarono nuovamente il ciclo della misura, quasi con frenesia. Pochi attimi più tardi, al crescere della luce laser, la gialla fluorescenza del cristallo si trasformava, come per incanto, in un verde smeraldo di incredibile brillanza, un verde puro, naturale, senza incertezze. La materia aveva finalmente reagito, e aveva reagito come l'uomo aveva predisposto.

laser 4

        Si strinsero la mano, senza avere premeditato il gesto, senza pronunciare parola. Anna corse col pensiero ad altre strette di mano, nate d'impulso: - Come in cima al Gran Paradiso, sul crinale tagliente di neve -. Ai suoi collaboratori, un istante dopo, disse invece, mascherando l'emozione: - Vediamo di ripetere l'osservazione nel tempo in cui rimane dell'elio liquido, poi ce ne andiamo al bar: questo benedetto segnale merita un brindisi.
        L'effetto osservato poc'anzi era netto, chiaro, perfettamente riproducibile e, a primo giudizio, in ottimo accordo con quello che avevano concettualmente previsto. Fecero alcune registrazioni grafiche e circa un'ora più tardi, allorché l'elio liquido diede i primi segni di agonia, iniziarono lo spegnimento delle apparecchiature, discutendo animatamente sulle più urgenti verifiche che avrebbero dovuto fare nelle giornate a venire. Poco dopo marciavano spediti nel corridoio principale dell'Istituto, diretti al bar dell'Università.
        - Professoressa - chiamò Corsi, il telefonista, mentre passavano davanti alla sua porta, sempre spalancata, - ho qui una chiamata per lei dagli Stati Uniti, mi sembra dalla voce che sia il dottor Pasetti. La prenda qui, risparmiamo tempo.
        Anna lasciò gli amici in corridoio, immersi nella discussione, ed entrò nella stanzetta del centralino, prendendo la cornetta che le veniva offerta:
        - Sì? Paolo? Sei Paolo? Come va, vecchio marpione!? Mi hai beccato per un pelo perché stavo uscendo per un aperitivo.
        La voce di Pasetti giungeva chiara, come se, anziché dalla California, provenisse dalla stanza accanto:
        - È un'ora che ci provo, risultava sempre occupato. Volevo dirti che non rientrerò la settimana ventura: mi hanno invitato a fermarmi altri tre mesi per completare le misure in luce di sincrotrone. Non posso rifiutare, qui si respira aria sana…
        - Non ti biasimo, riempiti i polmoni! Però mi spiace un po', qui servirebbe il tuo aiuto.
        - Grazie, Anna - Pasetti fece una pausa. - Dimenticavo, c'è dell'altro: ti è capitato in mano l'ultimo numero di Physical Review Letters?
        - Lo sai che qui le riviste arrivano con mesi di ritardo.
        - Si tratta del plasma elettronico.
        - Qualcosa che non va? - ad Anna, i preamboli di Pasetti davano un senso di apprensione.
        - Beh - tagliò corto questi all'altro capo del filo - ci avevi visto giusto! Funziona.
        Anna cominciava a provare una sensazione di peso allo stomaco, aveva la percezione netta di un'imminente catastrofe. Col fiato corto esclamò:
        - Che vuol dire: funziona?
        - McCull al Caltech. L'ha appena pubblicato: su Physical Review Letters, appunto.
        - Non ci credo!
        - Scrive che la fluorescenza passa dal giallo-arancio al verde e poi addirittura all'azzurro. Stanno già applicando l'effetto alla realizzazione di un laser a emissione variabile per uso chirurgico!
        Anna, fin dal momento in cui Pasetti aveva fatto il nome di McCull, era rimasta trasecolata. La notizia le era arrivata addosso come un colpo di mazza e un nodo amaro le aveva serrato la gola. In qualche modo balbettò:
        - McCull, son of a bitch! Quando gliene ho parlato, mi ha garantito che aveva già troppi impegni per pensare ad altri esperimenti. Dannato americano!
        - Ha lavorato in tempi strettissimi. Mi è spiaciuto per voi, però mi son detto: tanto saranno ancora lì, in attesa del laser.
        - È arrivato adesso: lo abbiamo appena fatto funzionare.
        - Peccato, allora…
        Anna tacque. Nessuno, nemmeno un amico come Paolo, avrebbe potuto prestar fede alla realtà dei fatti. E non era comunque storia da raccontare per telefono. Si congedò in modo asciutto dall'amico, promettendogli interessanti notizie al suo rientro in sede, e uscì dal centralino mormorando un grazie alla volta di Corsi, il solerte telefonista dell'Istituto davanti al quale erano passati per anni gli eventi più significativi della fisica italiana, senza che egli ne avesse avuto il più vago sentore.
        Nel corridoio, Marco e Floriano l'attendevano con aria interrogativa. Anna esitò qualche attimo, poi vuotò il sacco senza misericordia. Non ci furono commenti, come se tutto, nell'intimo, fosse stato previsto e messo in conto. Si lasciarono pochi istanti più tardi, rinunciando all'aperitivo, in uno stato d'animo che oscillava tra lo sgomento e il piacere perverso che si prova quando si tocca il fondo dell'abiezione.
        Anna fece la consueta, lunga traversata della città senza avvertire nulla di ciò che accadeva intorno a lei. Percorse i viali alberati verso la periferia e poi il dedalo di viuzze del quartiere Trieste e infine lo stradone di casa, appesa al volantino come un pilota automatico, incurante di quelli che le tagliavano la strada, che invadevano le corsie riservate agli autobus, che andavano contro mano, che superavano le file di auto ferme al semaforo - quando non passavano addirittura con il rosso, - che si appendevano rabbiosamente al clacson, o che le sfrecciavano accanto urlandole improperi. Il grandioso casino del traffico romano, emblema di quella che Anna soleva definire l'invasione degli ultrafurbi, ragione prima della crescente insofferenza che aveva accumulato nel cuore per la capitale, le era divenuto, quella sera, del tutto indifferente.
        La notte, Anna rimase per lungo tempo supina e immobile con gli occhi spalancati, senza vedere altro che il buio totale della stanza. Il pensiero dell'esito imprevisto e sconvolgente di tanto lavoro e di tanta paziente, fiduciosa attesa la rodeva interiormente. Anna si rivide attraverso gli anni: sempre sotto tensione, sempre immersa nell'impegno, sempre protesa a dare il meglio di se stessa verso obiettivi talvolta ancora indefiniti, ma della cui esistenza e del cui valore non aveva mai dubitato. Gli obiettivi si erano via via delineati, e lei si era battuta per essi, anche se spesso si erano rivelati deludenti e l'avevano lasciata priva di motivazioni. Nondimeno aveva cercato di tenere viva, dentro e fuori dall'ambiente di lavoro, una autentica partecipazione emotiva. Qualcosa capace di arginare il vuoto che, partendo dal suo travaglio di scienziata, andava progressivamente mettendo in crisi la sua intera ragione di vita. E ora, invece, era arrivato il colpo demolitore. Il sonno non si decideva a sfiorarla, tanto che alla fine dovette recarsi nel bagno per inghiottire - questa volta si imponeva - una doppia dose di sonnifero.

* * *


laser 5

        Più tardi nella notte, anzi verso le prime ore del mattino, avvenne una serie di fatti straordinari, il cui susseguirsi, purtroppo, è alquanto confuso per le esigenze di una cronaca veritiera e scevra di punti oscuri.
        A una certa ora, quando il silenzio della notte ebbe raggiunto il suo culmine, Anna era nuovamente in piedi, nuda di fronte al grande specchio della stanza da bagno. Sul braccio aveva i suoi indumenti, tra cui il vestito da sera nero, l'unico che possedeva e che le capitava di indossare molto raramente. Appoggiò il vestiario per sciacquarsi il viso con l'acqua fredda e si pettinò accuratamente. Durante questa operazione, ebbe modo di osservare attentamente il proprio corpo: malgrado qualche velo di grasso - che peraltro consentiva al suo petto di mantenersi solido - lo trovò nel complesso ancora giovane e piacente. Cominciò allora a vestirsi, con meticolosa lentezza, in un clima di totale distensione, come se, una volta tanto, nulla le facesse fretta. Si truccò con cura e si ripettinò almeno due volte.
        Quando fu pronta, aprì la finestrella del bagno e gettò un'occhiata verso il grande viale in discesa che correva a un centinaio di metri dalla palazzina. Una grossa vettura era lì ad attenderla, accostata al marciapiede, luci di posizione accese e motore spento. Lasciò la stanza da bagno in punta di piedi e percorse il lungo corridoio che portava all'ingresso dell'appartamento. Nel silenzio, le scarpe di vernice - scarpe che in verità non ricordava nemmeno di possedere - facevano un discreto scricchiolio. Anna spense la luce e uscì sulle scale, tirandosi dietro la porta con cautela.
        Quando fu all'aperto, l'aria della notte fresca e pungente le diede una gradevole sensazione di benessere. Notò che l'ampio braccio di cielo nero che sovrastava le ultime case verso l'aperta campagna era solcato, con una certa frequenza, da lampi silenziosi. Nei momenti di luce le parve di distinguere, ma certo si sbagliava, i contorni lontani degli Appennini, vaghi e mutevoli attraverso il susseguirsi dei bagliori.
        - Un bel temporale - si disse, - ma ci vorrà del tempo prima che arrivi sin qui. Non vale la pena di risalire per l'ombrello.
        Affrettò il passo e attraversò rapidamente l'area centrale del condominio per raggiungere il viale. La vettura, una grossa berlina nera del tipo di quelle che si usano nei matrimoni, recava sul retro l'adesivo circolare con la scritta SERVIZIO DI STATO - 777.
        - Ah, bene - pensò, - una vettura del Ministero: è la prima volta che accade. Questi nostri esperimenti con il laser devono cominciare a metterli in subbuglio. Evidentemente si sono resi conto dell'importanza dei fatti e non vogliono restare esclusi dall'azione.
        In verità era del tutto improbabile che la storia del plasma elettronico, e tanto meno gli sviluppi dell'ultima ora, fossero potuti giungere all'orecchio del Ministro; ma Anna, al momento, non si fermò a riflettere su questa circostanza. Aprì la porta posteriore della vettura, sul lato sinistro, e si sedette alle spalle dell'autista. Ciò era insolito per lei, perché in casi del genere preferiva prendere posto sul sedile anteriore per attenuare le distanze. Ma non se ne pentì, dato che le possibilità di colloquio si rivelarono subito scarsissime.
        - Salve - disse Anna sedendosi. - Mi spiace di darle lavoro a quest'ora notturna. Mi porti all'Università, per favore.
        - Come comanda, signora - rispose laconicamente l'altro. Quella fu tutta la conversazione che si svolse tra i due mentre la vettura scivolava silenziosa per le vie deserte della città.
        Si fece depositare davanti al cancello principale, che era accuratamente sbarrato. La guardiola del portiere appariva abbandonata. Per fortuna Anna aveva con sé una chiave personale che le permetteva di aprire, in caso di emergenza, la porticina ausiliaria. Mentre armeggiava, volse lo sguardo all'indietro e notò che la vettura ministeriale era in procinto di parcheggiare nell'ampio piazzale, completamente sgombro. Pensò che avrebbe fatto meglio a congedare l'autista, augurandogli un buon sonno, ma non aveva ancora ben chiaro, a quel punto, come si sarebbe sviluppata la situazione nel seguito della notte: - In fondo è il suo mestiere, aspetterà.
        La piccola porta di servizio, che era di metallo, si aprì con un cigolio e si richiuse alle sue spalle automaticamente con uno scatto secco. - Ecco, sono all'interno della prigione - disse a se stessa, meravigliandosi al contempo della strana associazione di idee. Si avviò per il corto viale, limitato all'estremo opposto dall'imponente costruzione marmorea del Rettorato, stile Ventennio, con l'aulica scritta che ne coronava la facciata: IN PRIMIS HOMINIS EST PROPRIA VERI INQVISITIO ATQVE INVESTIGATIO. Le occorse di rilevare quanto poca verità fosse contenuta in quella celebre sentenza, che pure aveva sempre accolto come scontata. - L'uomo non vuole vedere, l'uomo non vuole sapere - pensò. - È il solo modo che ha di difendersi dalla sventura di esistere.
        L'illuminazione era molto intensa e poneva in livida evidenza le forme geometriche degli edifici universitari che correvano su ambo i lati del viale. L'assenza di vita di qualsiasi genere, in quel luogo che Anna era abituata a vedere stipato di automobili e formicolante di persone, la percosse come un gelido brivido di febbre. Per la prima volta, dal momento in cui aveva iniziato il suo viaggio notturno, ammise a se stessa di essere venuta in quel luogo irreale per compiere l'esperimento risolutivo. Non più un gedanken experiment, ma un'impresa concreta e irrevocabile.
        Entrò nell'Istituto di Fisica dall'ingresso posteriore, di cui, inaspettatamente, si trovò in tasca la chiave. Il fatto la meravigliò, perché la serratura era stata sostituita di recente, nell'ennesimo tentativo di limitare la libera circolazione di estranei all'interno dell'Istituto. A rifletterci bene, Anna era sicura di non aver ancora fatto la richiesta per la nuova chiave. Non perse tempo tuttavia a indagare su questa circostanza, parendole che ogni cosa obbedisse, quella notte, a una sua logica fuori dall'ordinario. - Che stupidaggine aver preso tutto quel sonnifero - si limitò a osservare. - Mi sta confondendo le idee.

candelotto

        Un altro fatto, poco dopo, le apparve però ancora più stupefacente. All'inizio del corridoio del primo piano, Anna notò che la porta di una delle stanze di destra, per solito sbarrata, era appena socchiusa. Si ricordò allora di una voce che circolava tra i colleghi di Chimica, voce che a Fisica aveva trovato poco credito malgrado non si fosse mai potuto accertarne l'infondatezza. Durante la contestazione del Sessantotto, quel locale era stato ceduto agli studenti del Movimento Studentesco, affinché vi potessero tenere le loro carte e i loro attrezzi, pennelli, manifesti, megafoni. Era stata poi ereditata da quelli del Collettivo Autonomo, più per loro iniziativa che per consenso della Direzione. Da quel momento, a nessuno era stato più concesso di mettervi il naso. Si insinuava che con il passar del tempo la famosa stanza si fosse gradualmente trasformata in un vero e proprio deposito di munizioni, di cui si servivano vari gruppetti di potenziali terroristi della sfera parauniversitaria. Qualche burlone era arrivato a figurarsi un giorno in cui tutti i fisici sarebbero saltati in aria con le loro carabattole senza nemmeno sapere il perché.
        Non esitò un secondo: spalancò la porta ed entrò nella stanza che, già nella penombra creata dalla luce del corridoio, appariva ingombra di sedie e di ogni sorta di cartacce e scatoloni. A tastoni trovò l'interruttore, accese la luce e girò lo sguardo attorno con particolare attenzione. La baraonda era indescrivibile: rotoli di carta da computer e chiazze di vernice rossa un po' dappertutto testimoniavano la grafomania frenetica del Collettivo che aveva trasformato l'Istituto, durante quegli anni, in un'autentica galleria di manifesti e di proclami. Anna notò una quantità di bombolette spray, quelle che servivano - pensò - a tracciare le famose invettive sulle porte dei professori e sulle pareti dell'edificio. Anche i professori hanno un culo: usiamolo, era stata la più celebre. In un angolo, c'era un barattolone di minio, avanzato forse dal tempo in cui il gruppo marmoreo di Galileo e Milton, posto nell'atrio, era stato dipinto interamente di rosso.
        Tra le scatole di cartone che giacevano allineate lungo le pareti, attrasse la sua attenzione una specie di cassetta, più grande delle altre, che recava in posizione cospicua lo schizzo a pennarello di un teschio nero con tanto di ossa incrociate. - Guarda guarda! - mormorò, e subito sollevò il coperchio, che era soltanto appoggiato. Ai suoi occhi apparve un gran numero di cilindretti marroni, lucidi, lunghi una ventina di centimetri, ciascuno munito di un corto pezzo di spago nerastro.
        - Micce - pensò, per quel poco che ne capiva di questo genere di cose. - Vuoi vedere che si tratta proprio di candelotti di esplosivo? Allora è vero: questi ragazzi non hanno intenzione di limitarsi alle intimidazioni e alle botte!
        Fece scorrere con circospezione i polpastrelli sul fianco del candelotto che era più a portata di mano. Poiché non ci fu alcun segno di reazione, lo raccolse delicatamente, lo esaminò per alcuni istanti da vicino, indi lo ripose nella borsetta che portava con sé. Compiuto il piccolo furto, uscì dalla stanza spegnendo la luce e riaccostò la porta lasciandola esattamente come l'aveva trovata. Quindi si avviò verso il laboratorio, percorrendo due lati del quadrilatero che costituiva la pianta dell'edificio.
        Il silenzio era totale: Anna osservò a voce alta, come per assicurarsi della bontà del suo udito, che mai le era accaduto di mettersi al lavoro in un clima di più ideale rarefazione. I suoi nervi erano distesi, il battito del cuore così calato da parerle assente. Avvertiva solo un senso di dolorosa stanchezza alle gambe che la faceva procedere a fatica.
        Giunta che fu al laboratorio, accese la piccola luce di emergenza posta sopra la porta, cercò gli occhiali protettivi, li inforcò e fece scattare uno dopo l'altro i vari interruttori del sistema laser. Ancora una volta, puntualmente, quest'ultimo iniziò a scandire la sua pulsazione violetta. Nel silenzio profondo, turbato soltanto dal lieve ronzìo dell'elettronica, gli schiocchi che accompagnavano il lampo luminoso arrivavano come delle sferzate.
        Anna inserì con calma il prisma separatore - quello stesso che nel pomeriggio li aveva quasi fatti uscire di senno - in modo da deflettere il raggio e focalizzarlo sulla parete a lato del banco ottico; portò quindi il filtro ruotante alla posizione di massima attenuazione, cosicché nel punto focale la macchia luminosa fosse appena percettibile. In realtà, poiché non poteva fidarsi della vista a causa degli occhiali che riducevano di molto l'intensità luminosa del laser, verificò con un dito che la potenza era sufficientemente bassa da non produrre che un modesto riscaldamento della zona illuminata. Allora estrasse dalla borsetta il cilindro con miccia. Maneggiandolo con grande cautela, lo assicurò con del nastro adesivo a un braccio snodato di metallo fissato al bordo del tavolo. Poi lo avvicinò alla parete e fece in modo che la macchia luminosa del fascio laser cadesse sulla miccia, a poca distanza dal punto in cui si attaccava al candelotto. Quando fu certa che nessuna parte era in grado di muoversi senza un intervento esterno, prese una sedia e si mise a sedere a breve distanza dall'accrocco che aveva messo insieme.
         Fu a questo punto che, con un gesto repentino, Anna si tolse gli occhiali e guardò il candelotto: all'occhio nudo, il punto illuminato dal laser brillava, per riflessione, in modo sfolgorante. Provò una sensazione che avrebbe definito di gradevole fastidio. Gli impulsi luminosi erano parecchio più rapidi dei suoi riflessi, cosicché Anna non faceva in tempo, quand'anche fosse stato nelle sue intenzioni, ad abbassare le palpebre per proteggere la retina. Naturalmente, negli intervalli di buio che seguivano ciascun bagliore, le succedeva di sbatterle un paio di volte, come istintiva reazione allo stimolo, ma era sempre pronta a ricevere il lampo successivo ad occhi spalancati.
        - Procediamo esattamente come si è fatto oggi. Mettiamo in moto il filtro ruotante -. Sempre tenendo gli occhi rivolti verso la luce, allungò il braccio nella direzione del pulsante e lo premette con decisione.
        Percepì quasi subito il progressivo incremento dell'intensità luminosa, che per contrasto faceva apparire il resto del laboratorio totalmente immerso nel buio. Ebbe presto l'impressione di essere come sospesa nel vuoto, senza più appoggi e riferimenti. Col passare del tempo, i suoi sensi divenivano via via più attutiti, come sopraffatti dalla violenza della percezione visiva. D'un tratto, per esempio, si rese conto che lo schiocco del laser era divenuto quasi inudibile.
        - Fantastico! E non è che l'inizio, solo pochi centesimi della potenza massima. L'importante è riuscire a controllare le palpebre.

laser 6

        Nel fare questa riflessione, si accorse di sentire, dapprincipio come un tenue sottofondo, seppure chiarissimo nei dettagli, l'Allegretto della Settima. - La mia scoperta della musica… a quindici anni! -. Il risveglio di questo ricordo, ormai sepolto nel tempo, le produsse una consapevole sensazione di voluttà, profonda, pervasiva, come solo nei sogni le era talvolta occorso di provare. - Così è, allora: i sensi cominciano a ignorare gli stimoli esterni e a frugare dentro di noi. Dev'essere come la droga.
        La musica cresceva rapidamente di volume, in breve tempo era divenuta fragorosa, come se l'intera orchestra fosse assiepata nel laboratorio attorno a lei e suonasse un fortissimo ininterrotto senza rispetto per la partitura. Ora non era più la Settima, bensì la Nona all'attacco del coro, e poco dopo un'altra musica ancora, che si trasformava con continuità in forma di fuga canonica dai mille temi. Era come un ripercorrere la sua evoluzione spirituale, secondo il gusto che aveva accompagnato le stagioni della sua vita.
        Anna si rese conto - e se ne dispiacque - che anche la capacità di analizzare le sue reazioni si andava affievolendo, quasi che i processi mentali assumessero un carattere di casualità. L'ultima lucida osservazione che le riuscì di compiere, prima di entrare in un universo di allucinazioni, fu che il nervo ottico, evidentemente sollecitato oltre misura dallo sfolgorìo del laser, generava segnali di tale intensità da riversarsi in tutto il complesso sistema dei circuiti cerebrali, attivando sensazioni mai conosciute e memorie di cui aveva perduta la nozione.
        La bocca andava assumendo un acuto sapore di mandorle amare, lo stomaco era stretto in una morsa tenace, le gambe erano paralizzate, le dita stringevano mazzi di carte così spessi che lei penava non poco a trattenerli senza che si sfacessero sul pavimento. La splendida cascata di luce che le irradiava il volto era ora popolata di immagini vivide e abbacinanti, che mutavano da un lampo all'altro del laser. Erano ghiacciai di montagna, con pareti di seracchi alte e bluastre, poi rupi a strapiombo sulla distesa argentea e immobile del mare. In una confusa alternanza apparivano vitrei grattacieli di cemento, tralicci metallici scintillanti contro il cielo, nastri d'asfalto resi lucidi dal sole. E quindi di nuovo la natura: spiagge di candida arena che si perdevano in una striscia di mare all'orizzonte, selve trasparenti di vegetazione che si dissolvevano per lasciar posto a sagome umane, diafane e oscillanti come fiammelle in una danza senza peso. Le balzarono alla mente i versi di Eliot:

          Noi siamo gli uomini vuoti
          siamo gli uomini imbottiti
          che appoggiano l'uno all'altro
          le teste riempite di paglia.

        Le parole, martellanti come un maglio pneumatico, si rincorrevano ossessivamente e finivano per sfilacciarsi nella musica. Questa, intanto, aveva raggiunto un livello lacerante, perdendo i suoi contorni e trasformandosi in una ridda di frastuoni sovrapposti. Il cuore le doleva di tenerezza, magicamente coinvolto nello scenario che aveva dinnanzi, quasi fosse parte di lei, un io esterno con cui cercava disperatamente di congiungersi.

          Fra l'idea e la realtà
          fra l'impulso e l'azione
          cade l'Ombra.

        
Fu a questo punto che una nuova sensazione cominciò a impossessarsi di lei. Le parve di avere perduto il proprio peso, anzi di più, sentì quasi di pesare verso l'alto, come se una spinta vigorosa la stesse sollevando. Si staccò da terra, dapprima lentamente, poi più in fretta, infine a grande velocità. Presto fu fuori dal laboratorio, sopra i tetti e le strade deserte - l'enorme distesa delle luci cittadine sotto i piedi sempre più lontana - proiettata in una corsa vertiginosa verso lo spazio nero del vuoto interstellare. Non riusciva ad opporre resistenza al proprio moto, malgrado il suo stato d'animo fosse ora dominato da un'acuta angoscia. E se improvvisamente fosse stata restituita alle leggi della natura e il suo peso corporeo - il suo ridicolo peso di essere umano - avesse finito per annientarla al suolo?
        Durante questa incredibile fuga, i suoni che prima avevano fatto violenza alla mente di Anna erano andati attutendosi per lasciar posto ad un silenzio che diveniva sempre più disteso. Quando la terra non fu che un punto luminoso eguale alle infinite stelle che fiammeggiavano nel suo campo visivo, Anna smarrì la nozione del movimento e si trovò perfettamente immobile, sospesa nell'indecifrabilità del nulla. Provò una sensazione di solitudine agghiacciante: non un corpo, non un oggetto, non una molecola, non un elettrone, uno solo, si trovavano a distanze minori di anni luce da lei. Volle verificare la consistenza del vuoto cercando di agitare rapidamente le braccia come si fa per smuovere l'aria attorno a sé. Solo allora fece una scoperta straordinaria: nulla, le sue braccia non esistevano! Non esistevano le gambe, la testa, non esisteva il suo corpo, dissolto all'improvviso come un meteorite al contatto con l'atmosfera. Tornarono le parole di Eliot:

        Figura senza forma, ombra senza colore,
        forza paralizzata, gesto senza moto.

        Questo stato di suprema astrattezza, indescrivibile nella sua immaterialità, ma per Anna ben presente e concreto, ebbe una durata che lei non avrebbe saputo definire. Secondi? Anni? Millenni? Anna lo percepì come una condizione perenne. La quale, in realtà, dovette durare ben poco, perché fu repentinamente interrotta da una vibrazione glaciale. Giunse travolgente, incontenibile, dopodiché fu l'assenza di ogni percezione sensoriale, furono il buio e il silenzio totali.
        Rimase spossata, priva di energie, riversa contro lo schienale della sedia, le gambe divaricate, le braccia abbandonate sui fianchi, la testa reclinata sul petto. Passarono così alcuni minuti, poi Anna si rese conto che i rumori reali della stanza avevano ripreso a farsi sentire, prima velati, poi sempre più distinti. La colpì un nuovo suono, che prima non aveva notato, e che non faceva parte del ronzìo sommesso e uniforme degli strumenti. Era una specie di crepitìo irregolare, uno sfrigolìo come di legna fresca gettata sul fuoco.
        - Finalmente: dev'essere la miccia che si è incendiata - rifletté. - Ha resistito più a lungo della mia retina. Ora sarà questione di attimi.
        Quegli attimi furono, in realtà, interminabili. Gli schiocchi del laser che Anna poté contare, tre, forse quattro, le parvero esageratamente dilatati nel tempo. - L'orologio della morte - si disse, provando, malgrado la sua irrevocabile determinazione, un freddo brivido che le salì fino all'attaccatura dei capelli.
        Aveva appena finito di formulare questo pensiero, che ebbe inizio la deflagrazione, uno schianto subitaneo, violento. Anna intuì gli oggetti che volavano vicino al suo capo con un sibilo acuto e li sentì fracassarsi contro le pareti. Banco di lavoro, strumenti, criostato, pompe da vuoto, ogni cosa era proiettata nello spazio circostante da una forza brutale. Poi tutto cominciò a crollare rovinosamente su di lei con un boato assordante. Pareti, soffitto, pilastri si sgretolavano come fossero costruiti di sabbia. L'intero edificio si afflosciava, ma ciò avveniva con grande lentezza, come in un film girato al rallentatore. Anna percepì tutto con lucidità, ma stranamente non provò alcuna sofferenza fisica, tanto da rendersi conto con precisione del momento in cui il crollo era cessato ed era di nuovo subentrato il silenzio.

laser8

        I fatti si erano svolti come se Anna fosse stata un osservatore esterno del fenomeno. Non ebbe tempo di meditare su questo incredibile esito dell'esperimento, che certo era lontana dall'avere previsto, che uno schianto ancora più violento si abbatté vicinissimo a lei, appena fuori dalla finestra. - Che razza di fulmini! - pensò in modo confuso. Si girò sull'altro fianco e ripiombò subito nel suo magnifico sonno, fatto interamente di artificialità.


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  13 settembre 2003