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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 25 febbraio 2007



Verso un riformismo ben temperato
Eugenio Scalfari su
la Repubblica


Dicono: non guardiamo a ieri, ma guardiamo a domani. E magari anche a dopodomani. D´accordo, pensiamo al futuro, alla fiducia che Prodi chiederà al Senato nei primi giorni della settimana, alle possibilità che riesca ad ottenerla e a quello che può accadere nei giorni e nei mesi successivi. Ma anche alla "dannata" ipotesi che la fiducia non sia raggiunta: in fondo basta una febbrata ad uno o due senatori del centrosinistra per mandare tutto a carte quarantotto. O viceversa.
Ebbene: sulla carta i numeri ci sono. I voti in favore del governo dovrebbero essere 158 contando i due senatori del dissenso che hanno accolto il richiamo all´ordine, il voto (sicuro al 99 per cento) di Follini e quello dell´italo-argentino Pallaro che nell´infausta giornata del 21 si schierò al centrodestra ma ora ci avrebbe ripensato (diamolo al 51 per cento). Dovrebbero essere quattro i senatori a vita presenti e votanti "sì". Forse Andreotti e Pininfarina non saranno in aula e la loro assenza abbasserebbe il quorum in favore del governo (diamo questa ipotesi al 50 per cento). Insomma, per il rotto della cuffia questa volta il governo dovrebbe farcela. Ma dopo? Si può governare in perenne bilico? Questo è il problema.
In teoria si può governare anche con un solo voto di maggioranza, ma ci vuole una cultura istituzionale che da noi non c´è. A Westminster è prassi che nel caso di maggioranze risicatissime l´opposizione faccia assentare un paio dei suoi membri per render possibile al governo di portare avanti la sua politica. Ma questo per l´attività legislativa corrente, non certo per le mozioni di sfiducia.
Comunque è evidente che le intemperanze dei dissenzienti di sinistra spingeranno il governo ad allargare la maggioranza verso il centro per la semplice ragione che a sinistra di Rossi e di Turigliatto non ci sono altri soggetti parlamentari, almeno per ora. L´ingresso di Follini e le motivazioni che lui stesso ne ha dato sono eloquenti da questo punto di vista. Non credo tuttavia che questo spostamento cambi la sostanza politica della maggioranza e del governo. Chi voleva spostarla erano i comunisti di Diliberto e quelli di Rifondazione. La svolta programmatica del 22 febbraio (i dodici punti di Prodi "obbliganti" per tutti i partiti della coalizione) ha rintuzzato lo strappo a sinistra ed ha riportato il baricentro laddove dev´essere, se non altro per ragioni numeriche, cioè sull´Ulivo.
Politicamente questo è accaduto e l´Ulivo, che dovrebbe dar vita al più presto al partito democratico, è una forza politica riformista. La sinistra radicale rappresenta, Verdi compresi, meno del 9 per cento dell´elettorato contro il 30 dell´Ulivo. Il baricentro è dunque quello e nessuno può disconoscerlo all´interno dell´Unione. Ma è anche chiaro e noto a tutti che Prodi, Fassino, D´Alema, Rutelli e Franceschini sono riformisti e non moderati. Tantomeno rivoluzionari, ammesso ma non concesso che altri lo siano.
La sinistra radicale rappresenta un riformismo più spinto. Può contribuire alla volontà comune, alle scelte comuni, ma non può pretendere di dettarle senza mettere in crisi l´alleanza. La crisi del 21 febbraio ha avuto almeno il pregio propedeutico di rendere evidente questa realtà, del resto ben nota. Un mese fa scrissi un articolo dal titolo "Se Prodi cade la sinistra non c´è più". Non era una profezia ma una semplicissima constatazione di fatto.
Dunque il governo, se otterrà la fiducia, non potrà che continuare e anzi rendere più incisive le scelte e le iniziative già intraprese. Per modernizzare lo Stato e la società, per far crescere l´economia reale, per aumentare il livello di giustizia sociale e soprattutto per proseguire in una politica estera di timbro europeo distinguendosi – come già sta facendo – dalla politica berlusconiana ma restando nel quadro dell´alleanza storica con gli Stati Uniti. Discontinuità nella continuità: non è un ossimoro bensì la carta d´identità del riformismo democratico.
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Dunque tutto come se la crisi del 21 febbraio non ci fosse stata? Cancelliamo quella data dal calendario e si ricomincia sulla linea dello "Heri dicebamus"?
Non credo che sia possibile e per capirlo bisogna tornare al recente passato per meglio intravedere le ipotesi di lavoro che riguardano il futuro.
Io non credo ai complotti e nemmeno ai colpi di sole. Stando ai patiti del retroscena, nel voto contrario di Cossiga e nell´astensione di Andreotti e di Pininfarina ci sarebbe la zampa dell´America, del Vaticano, e della Confindustria; ma detta così è una rozza semplificazione che non sta in piedi.
Pininfarina (non è un pettegolezzo ma un dato di realtà) è una persona molto ammalata. Il suo "rapimento" nell´aula di Palazzo Madama è un episodio abbastanza ignobile dietro al quale non c´è nessun complotto politico ma una squallida "appropriazione indebita".
Cossiga si identifica da sempre con i servizi di sicurezza italiani e occidentali, nel bene e nel male. Non è arbitrario pensare che James Bond sia il suo punto di riferimento. Non a caso fu uno dei responsabili di "Gladio" e di organizzazioni para-militari fondate dalla Nato durante la fase calda della guerra fredda. Il senatore Di Gregorio è la sua controfigura ad infimo livello, ma anche nel caso di Cossiga non c´è complotto alle spalle. Nessuno gli è andato a suggerire come votare. Lui lo sapeva da sé.
Analogo discorso vale a maggior ragione per Andreotti. Esaminando il suo voto su 24 Ore del 22 febbraio, Orazio Carabini ha citato la frase pronunciata da Paolo Sarpi dopo esser stato pugnalato dai sicari dell´Inquisizione: "Agnosco stylum Romanae Ecclesiae". Tradotto e attualizzato, il voto di Andreotti sarebbe dunque la pugnalata inferta a Prodi dal cardinal Ruini per interposto senatore a vita. Ebbene, conosco abbastanza il personaggio Andreotti per dire che questa ipotesi non ha senso.
Però un senso ce l´ha. Andreotti era ben consapevole che il cattolico adulto Romano Prodi, la cattolica adulta Rosy Bindi, i sessanta cattolici adulti della Margherita rappresentano una realtà indigeribile per l´episcopato italiano. Da cattolico adulto (anzi vegliardo) anche lui, Andreotti ha giudicato che quella astensione negativa fosse la scelta giusta per indebolire la pericolosità e limitare la rivendicazione di autonomia dei cattolici adulti e antitetici a lui. Il suo voto ha dato una mano a Ruini e a Fisichella anche se nessuno di loro glielo ha chiesto. Andreotti decide da solo. Ora che ha ottenuto il risultato è possibile che si astenga non in aula ma fuori: dopo il bastone la carota.
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E i colpi di sole? La "incontinenza" (diciamo così) di Turigliatto e di Rossi?
Due stagionati professionisti della politica non prendono l´insolazione perché si espongono al sole senza cappello. Alle loro spalle c´è una lunga storia e qualche equivoco culturale e politico che risale a tutto il gruppo dirigente di Rifondazione e dei Comunisti italiani: l´equivoco di poter cavalcare i cosiddetti movimenti, sia quelli ideologici sia quelli territoriali, e di esserne i rappresentanti nelle istituzioni e addirittura nel governo. Per questa ragione Rossi e Turigliatto, ma anche i Caruso e i cinque o sei radical-rock, hanno avuto il loro seggio in Parlamento: rappresentavano la prova vivente della contiguità dei partiti di estrema sinistra con i movimenti. E sempre per questo motivo sia Giordano sia Diliberto sono andati a Vicenza e ne sono tornati con euforica gloria.
Purtroppo per loro i movimenti ideologici non si sentono affatto rappresentati dai loro partiti nelle istituzioni per la semplice ragione che delle istituzioni se ne infischiano totalmente. Quanto ai movimenti territoriali, a Vicenza erano ben contenti di avere in corteo due segretari di partiti nazionali perché, come dice Chiambretti, in tivù tutto fa brodo; ma la caduta del governo Prodi non è affatto piaciuta alla grande maggioranza dei vicentini di centrosinistra, tant´è che un buon numero dei messaggi arrivati ai siti Internet della sinistra radicale con proteste feroci contro chi aveva provocato la crisi è venuta da Vicenza.
Capisco che questo comportamento lede il principio di non contraddizione, ma le folle quando vanno in piazza non si pongono questioni di logica filosofica; agiscono, mandano in scena un happening e poi magari protestano contro gli effetti collaterali che hanno prodotto.
Così va la vita, Giordano, Diliberto e anche Bertinotti dovrebbero conoscerle queste cose di politica elementare. Stare sul trapezio richiede un grandissimo senso di equilibrio; basta caricare troppo su una qualsiasi parte del corpo per cascare di sotto ed è esattamente ciò che è accaduto. Solo che di sotto ci siamo cascati tutti perché agganciati a quel trapezio c´erano i famosi interessi del paese.
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Il presidente della Repubblica ha fatto ieri mattina in poche righe una lucidissima lezione di saggezza costituzionale agli italiani, dopo aver rinviato Prodi alle Camere per una verifica del rapporto fiduciario. Ha spiegato perché non poteva sciogliere le Camere e perché non poteva, senza prima aver compiuto quella verifica, dare l´avvio ad un governo istituzionale.
Non c´è che inchinarsi a quella saggezza e constatare ancora una volta che la presidenza della Repubblica resta di gran lunga il luogo dove gli italiani trovano il loro presidio e la loro più alta e unitaria rappresentanza. Così fu con Einaudi, con Saragat, con Pertini, con Scalfaro, con Ciampi ed ora con Giorgio Napolitano.
Bisogna continuare nell´attuale politica estera – ha detto il capo dello Stato – proseguire nella politica di rilancio economico e sociale, riformare una legge elettorale obbrobriosa, stilata apposta dal centrodestra per rendere ingovernabile il Senato.
Questo è il mandato che Napolitano ha assegnato al governo e che Prodi aveva del resto già fatto proprio in anticipo salvo il tema della legge elettorale di cui nessuno si nasconde l´urgenza ma che non può essere affrontato senza la collaborazione di almeno una parte dell´opposizione.
Nel frattempo sarebbe molto utile modificare alcune storture esistenti nel regolamento del Senato e che potrebbero essere rapidamente cancellate a cominciare dall´astensione che – chissà perché – a Palazzo Madama equivale a un voto negativo mentre a Montecitorio vale per quello che è, cioè né "sì" né "no" (Andrea Manzella ha ieri segnalato in un suo articolo sul nostro giornale questo ed altri gravi difetti regolamentari che dovrebbero essere aboliti con urgenza).
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La new entry di Marco Follini nelle file del centrosinistra ha un´importanza che va al di là del voto in più acquistato al Senato. Se Prodi otterrà la fiducia e se nelle prossime settimane il governo procederà speditamente sulle linee indicate nei dodici punti prioritari accettati dalla coalizione, l´esempio dell´ex segretario dell´Udc potrà calamitare altri parlamentari di vocazione centrista e di sentimenti etico-politici incompatibili con il berlusconismo.
Lo ripeto: questa auspicabile confluenza non sposta il baricentro politico dell´Unione ma serve a rafforzarne la maggioranza riformista senza con ciò escludere contributi della minoranza più radicale. Questa è la natura e la struttura dell´Unione e altro non può essere. Quando pendesse troppo alla sua sinistra o troppo alla sua destra, si sfascerebbe come è accaduto il 21 febbraio e con lei si sfascerebbero in un immenso polverone tutti i partiti e i partitini che la compongono.
Ricordiamo le parole di Napolitano: questa è l´ultima prova concessa. Se la si supera non si è ancora vinto, ma se non la si supera si è perso per altri vent´anni.



Voltagabbana tra fiori e letame
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

Carrettate di letame, carrettate di fiori. Le reazioni alla scelta di Follini di passare al centrosinistra sono documenti storici straordinari.
Perché mostrano con accecante chiarezza come la politica italiana sia vissuta ormai, salvo eccezioni, come una guerra per bande. Dove conta una cosa sola: chi è con te, chi è contro di te. Fine. E al diavolo tutto il resto. A partire dalla coerenza.
Ma come: quelli che oggi sommergono di insulti l'ex segretario dell'Udc non sono gli stessi che mesi fa lodavano la nobile e tormentata decisione di Sergio De Gregorio di piantare in asso la sinistra che l'aveva eletto? E quelli che ieri marchiavano d'infamia il senatore dipietrista reo di aver tradito per fare il presidente della Commissione Difesa coi voti polaroli non sono gli stessi che oggi plaudono alla meditata e sofferta rottura dell'"Harry Potter" neodemocristiano? Per carità, sempre successo. Basti ricordare la diversità dei cori, divisi tra lo sdegno e l'approvazione, che accompagnarono nel '94 la scelta di Luigi Grillo di consentire con il suo voto la nascita al Senato del primo governo Berlusconi, contro cui aveva fatto parte della campagna elettorale nelle file del Ppi di Mino Martinazzoli. Oppure, sul versante opposto, il sollievo sorridente della sinistra e la schifata rivolta delle destre contro la decisione di Clemente Mastella e altri di rompere nel '98 col Polo per consentire la nascita del primo governo D'Alema.
Ricordate, il debutto in Parlamento? Giuliano Urbani parlò di un "governo giuda". Gianfranco Micciché di un'accozzaglia di "saltimbanchi, truffatori, massoni, boiardi di Stato" capaci solo di "strisciare come vermi". Manlio Contento di una "compagine di viados della politica italiana". Gianfranco Fini di un esecutivo "di rigattieri". Ciò detto, rispolverò l'invettiva che Alberto Giovannini aveva usato per bollare i monarchici che avevano abbandonato Achille Lauro per arruolarsi nella Dc: "Puttani!". E Silvestro Liotta detto Silvio arrivò a dire che a molti componenti del nuovo governo erano "andati trenta denari ". Parlava da un pulpito tutto suo: poche settimane prima, era stato lui, infatti, a far cadere Prodi tradendo la sinistra dopo aver tradito la destra con la quale era stato eletto. E incassando, al rientro, la benedizione di Gianfranco Micciché: "E' chiaro che quando gli abbiamo riaperto le porte del partito non c'è stato manco bisogno di dirgli che il suo collegio è lì che lo aspetta".
Va da sé che, a seconda di "chi tradiva chi", sono sempre cambiate le opinioni. E se certi vecchi naviganti della politica ne ridacchiavano come Francesco Cossiga ("Il primo voltagabbana della storia fu San Paolo sulla via di Damasco") o Claudio Martelli ("Anche Lutero era cattolico, prima di diventare protestante"), ci sono stati momenti in cui la destra, per bocca di Francesco D'Onofrio, arrivò ad affermare la necessità d'inserire nella nuova Costituzione "una legge contro il salto della quaglia". E altri in cui la stessa proposta è partita da sinistra. Anzi, sbottò un giorno il senatore verde Athos De Luca, "per quelli che cambiano partito si dovrebbe adottare il sistema degli indios Paes, che in Colombia gettano i traditori nelle acque di un lago".
Esagerati. Pronti comunque a spalancare le braccia ogni volta che il figliol prodigo di turno tornava a casa. E c'è chi, tirandosi dietro gli insulti degli alleati abbandonati, ha mangiato il vitello grasso sia per il ritorno a destra e sia per il ritorno a sinistra e magari poi di nuovo a destra. Come Rocco Buttiglione, Alessandro Meluzzi, l'Umberto Bossi e altri. O Totò Cuffaro, che in una sola legislatura di vitelli grassi, avanti e indré, è arrivato a mangiarne una quantità. Insomma: c'è voltagabbana e voltagabbana. Quello infame ti molla, quello buono ti soccorre.
Mai però, a causa degli equilibri incerti del Senato, si è vista tanta ipocrita indignazione e tanta ipocrita soddisfazione quanto nell'incrociarsi delle scelte opposte di Sergio De Gregorio e di Marco Follini. Era commossa, la destra, quando il senatore eletto con la più antiberlusconiana delle liste, quella dipietrista, svoltò a destra. "La politica è anche assunzione di responsabilità", disse Gianfranco Fini, "il franco tiratore è un vile, chi invece si assume le proprie responsabilità merita rispetto". "È un uomo di grande spessore", spiegò Gianfranco Rotondi.
"Chi li conosce, quelli di sinistra, li evita", gongolò Roberto Calderoli. "Renato Schifani gli ha telefonato stanotte per chiedergli se fosse disponibile a diventare il nostro candidato in commissione Difesa...", rivelò Paolo Guzzanti. E spiegò che per quelli come lui la Cdl era pronta a "offrire sponda".
A sinistra, fulmini e saette. "Si è trattato di trasformismo e mercimonio", accusò Franco Giordano. "Una vera e propria compravendita", rincarò Gennaro Migliore. "Dopo essere stato eletto col centrosinistra, dovrebbe sentire il dovere di dimettersi", sibilò Vannino Chiti. "Giuda era e giuda rimane", sbottò Antonio Di Pietro. Al che Giampiero Catone saltò su indignato: lui un giuda? Noooo! "Quella a De Gregorio è una vergognosa aggressione!" E assicurò: "Per lui le porte della Democrazia Cristiana per le Autonomie sono sempre aperte".
Ieri, oplà, tutto rovesciato. Di qua Pierluigi Bersani diceva che lui Follini lo stimava "già prima" ed Enzo Carra dava "il benvenuto a Marco", di cui conosceva "la sofferenza personale che dura da anni", e Renzo Lusetti che si congratulava per l'arrivo di un "uomo di raffinato intuito politico, dalle ottime capacità propositive e di grande spessore morale". Di là, con l'eccezione di Giuliano Ferrara ("chi lo aggredisce è un bischero") e rari altri, grandinavano insulti. Da Alessandra Mussolini ("Scelte immorali") a Luigi Vitali ("Compravendita di uomini"), da Sandra Monacelli ("Un salto della quaglia") a Lorenzo Cesa ("Fenomeni di trasformismo") a Piero Testoni: "L'Italia di mezzo è l'Italia dei mezzucci". E se domani il caro Marco tornasse di là? Vitello grasso! Vitello grasso! In fondo, per molti, è solo un gioco.
O no?


Lo scettro di Romano che non c'è
Filippo Ceccarelli su
la Repubblica

Era seppellito, insieme ad altri antichi, irriconoscibili manufatti in una sacca di cuoio ritrovata non molto tempo fa da valenti archeologi alle pendici nord orientali del Palatino. Vai a sapere chi aveva nascosto lì sotto lo scettro dell´Imperium e le altre insegne cerimoniali appartenute con tutta probabilità all´imperatore Massenzio, sconfitto a Ponte Milvio da Costantino nel 312.
Bene. Per una di quelle coincidenze che fanno la gioia dei visionari e degli sfaccendati, nel giorno decisivo della crisi di governo e per l´esattezza proprio quando il presidente della Repubblica Napolitano si rigirava tra le mani, perplesso, il dodecalogo fatto sottoscrivere da Prodi ai suoi alleati come una specie di atto di sottomissione, quella sensazionale testimonianza del comando in forma di scettri, sfere, stendardi e lance da processione è stata presentata alle telecamere. Al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, fra un incontro politico e l´altro, c´era il vicepremier e ministro della Cultura Rutelli. Anche sua l´idea di dedicare due sale e una mostra a quelle scoperte. Titolo: "I segni del potere".
E di qui sorge, appunto, l´interrogativo ribaldo: dov´è sotterrato lo scettro di Romano Prodi? Quale apparato rituale sanziona il suo ritorno a Palazzo Chigi? Che tipo di gloria l´accompagnerà nel suo regno?
"E via, ragasci!" potrebbe rispondere il Prof, anche giustamente dal suo punto di vista. Ha da pensare ai voti del Senato, Prodi, altro che gli aggetti tutti incrostati degli antichi romani. Incalzano i soliti problemi: De Gregorio, Pallaro, Turigliatto... Di costoro, d´altra parte, si alimenta la politica nel 2007. E guai a chiudere gli occhi sullo stato dei rapporti fra D´Alema e Fassino, non sia mai che si trascurino le ansie di Di Pietro, i desideri di Diliberto, le smanie di Mastella, i capricci di Pecoraro Scanio; per non dire l´inesorabile distacco fra Marco Follini e la "Fondazione Formiche". Tutto normale.
E tuttavia ci sarebbe dell´altro. Che il potere, per esempio, ieri come oggi vive anche di metafore, emblemi, icone, liturgie e dispositivi di consacrazione. Simboli. "Nella religione, come nella politica, il simbolo è sempre una interpretazione della vita condensata in un oggetto, in una parola, in un´immagine, in un comportamento, in un luogo o in una persona - ha osservato uno specialista come lo storico Emilio Gentile - Il simbolo è il linguaggio proprio delle credenze e del mito. L´uomo è un animale simbolico".
Ora, per tornare al Museo, si può sorvolare sulla circostanza che Rutelli, intercettato dai giornalisti fra statue e mosaici, abbia chiarito che si trattava di un "Prodi 1 e non di un Prodi bis" - anche se è suonato sospetto l´accenno ad altri "futuri governi". Ma riguardo allo scettro, ciò che fa riflettere è che il rinnovato potere di Prodi si fonda in ultimissima analisi sul punto 12 dell´ormai celebre promemoria. Che dice, testualmente: "Per assicurare piena efficacia all´azione di Governo (maiuscolo, ndr), al Presidente del Consiglio è riconosciuta l´autorità (minuscolo, ndr) di esprimere in maniera unitaria la posizione del Governo stesso in caso di contrasto".
Anche questa formula si spiega, essendo il governo un organismo collegiale. Però colpisce che i contrasti siano dati per certi. E infatti a Palazzo Chigi non sono mai mancati, fin dal primo giorno, quando si trattò di decidere la dislocazione delle stanze dei vicepremier. Ma l´autorità, o meglio l´auctoritas rappresentata nelle insegne degli imperatori, non è roba da documento politico: "Non è uno status - ha spiegato Bruce Lincoln, autore appunto de L´autorità (Einaudi, 2000) - ma una suggestione che induce ad ascoltare con venerazione, docilità e obbedienza il discorso di un governante, come di un esperto o di un genitore, a prescindere dal suo contenuto o dalla sua qualità. L´autorità porta la gente ad agire come se fosse persuasa, anche se non lo è o non capisce realmente ciò che viene detto. In un certo senso l´autorità è il contrario della persuasione, che nasce dalla razionalità degli argomenti, mentre qui a contare sono credenziali esterne e ineffabili".
Ritorno al presente, e dunque a Follini, Pallaro, Turigliatto e compagni: l´autorità di Romano Prodi e quindi la possibilità di restare al comando restano quelle di un classico leader dell´era democristiana. Il presidente del Consiglio di una democrazia parlamentare e come tale attento alle alleanze e ai voti di fiducia, costretto a mediare e combinare gli interessi di una maggioranza per sua natura riottosa.
La questione è se tale condizione abbia ancora un senso nell´Italia, ormai, della post-politica mediatizzata: con i suoi vuoti, i suoi bagliori, le sue apparenze, le sue vertigini. Perché a respingere "i ricatti degli alleati" - sintomatico ossimoro sfuggito al Prof in un momento di indignazione - non basta evidentemente il plebiscito delle primarie; né, sul piano delle emozioni spettacolari, ci si solleva dall´ordinario e sgangherato tran tran alzando al cielo la coppa del Mondiale come il Santo Graal. Il Portavoce Unico, punto 11 del dodecalogo prodiano, assomiglia piuttosto a una toppa a colori. Ben altro servirebbe a Prodi: lo scettro, o qualcuno che glielo dissotterri, là dove si sciolgono i concetti e si condensano i simboli.
Nella Prima Repubblica la potente energia del sacro era mirabilmente racchiusa nelle istituzioni, in Parlamento soprattutto. Ma oggi è come se avesse preso il volo, o si fosse consumata. Montecitorio e Palazzo Madama sembrano nel migliore dei casi parchi tematici e nel peggiore ricchi condomini litigiosi. I parlamentari si organizzano viaggi, club di tifosi e settimane gastronomiche, quando non piantano cannabis o nascondono finte molotov nel cortile. Tutto diventa lì dentro occasione di conflitto: spazi, tempi, presepi, bagni. Segnala Dagospia che all´inizio di novembre, nel corridoio cosiddetto dei presidenti della Camera, è stato segnalata la presenza di Antonio Zequila, detto "Er Mutanda".
Al vuoto rituale di Prodi e del Parlamento, corrisponde un pieno di berlusconismo simbolico. L´anno scorso il Cavaliere ha assistito a una cerimonia per qualche anniversario di don Gelmini e gli è piaciuto moltissimo che alcuni sacerdoti si inginocchiassero davanti a lui: "Quasi quasi potrei chiederlo ai miei ministri" ha scherzato. Ma non troppo. Lui lo scettro ce l´ha già: certo lussuoso, ma artificiale. E per consolarsi si può solo pensare che dopo tutto ce l´aveva anche l´imperatore Massenzio. Ma non gli servì a vincere a Ponte Milvio contro Costantino.


Il Totofantagoverno
Alessandro Robecchi su
il Manifesto

È sempre un errore lasciarsi trasportare dall'emozione nelle faccende politiche, ma conosco gente, anche bravi compagni, che pur di non vedere di nuovo Gasparri al governo andrebbe a invadere l'Afghanistan a mani nude. È sempre un errore lasciarsi trasportare dall'emozione nelle faccende politiche, quindi la prossima volta che Mr. Genius dice "se andiamo sotto, tutti a casa", siete autorizzati a staccargli la spina. Fatte queste doverose premesse, gli scenari che si aprono sono nuovi e interessanti. Governo di larghe intese. Come ha già detto il compagno Follini serve un nuovo centrosinistra. La presenza di Follini garantirebbe una rappresentanza delle grandi masse lavoratrici. Il ministero della famiglia sarà diviso in due, ci saranno due ministeri della famiglia e andranno tutti e due a Casini (due famiglie, due ministeri). Governo di larghe imprese. Ipotesi caldeggiata da Confindustria, ma inapplicabile finche ci saranno ancora larghe imprese in mano statale. Dopo la privatizzazione di Alitalia il nuovo governo potrà decollare, nel caso, licenziando qualche milione di italiani. Governo per la legge elettorale. Siccome la legge elettorale è stata scritta da Calderoli sotto acido, nemmeno i licheni del pianeta Altair IV andrebbero a votare in quel modo. Si vara dunque un governo di larghe intese che litiga sei mesi. Il risultato sarà una legge elettorale disegnata per far vincere un governo di larghe intese (vedi punto 1). Governo dei saggi. Si cercano freneticamente dei saggi o perlomeno dei normodotati, ma la classe politica della sinistra si trova improvvisamente a corto di nomi. Governo a sorteggio. Una grande lotteria abbinata al festival di Sanremo deciderà il prossimo capo del governo. Febbrili trattative per gli abbinamenti ma anche grossi rischi. Con Rossi e Turigliatto abbinati ad Al Bano si rischierebbe una crisi del Festival. Interim vescovile. Grazie all'astensione di Giulio Andreotti carrozzato Pininfarina, la Cei ha offerto al governo italiano una soluzione veloce e indolore: un governo monocolore formato solo da vescovi. I porporati-ministri saranno tutti sposati ed eterossessuali, per cui la pratica sui diritti delle coppie di fatto verrà automaticamente archiviata.


“Déjà vu” e “Contro Michele Serra”
Manuela Faccani su
Ulivo Selvatico 24.02.07

Déjà vu
La sera della caduta del primo governo Prodi, il 9 ottobre del 1998, ero in una sezione del PDS, a cui all'epoca ero ancora iscritta. Feci un accorato intervento in difesa del Governo, e soprattutto a favore dell'idea di Ulivo, quell'Ulivo che doveva essere il segno di un profondo rinnovamento della politica italiana, e il cui ramo qualcuno stava già segando. Il mio intervento piacque molto alla platea (i “compagni di base”, “la nostra gente”, ecc. ecc.) composta di molta gente più anziana di me e soltanto qualcuno di più giovane, che mi applaudì convintamente, e uno di quei vecchi comunisti si voltò verso di me che mi sedevo, arrossata per l'emozione e la fatica, e mi apostrofò in dialetto “Brava ragazza!”, facendomi sentire davvero molto giovane. Non ebbi nessun'altra risposta, tranne un intellettuale che, nel corso del suo lungo intervento, si dichiarò dispiaciuto della mia scarsa lungimiranza dacché, visto che ormai si stava costruendo la Cosa 2, che bisogno c'era dell'Ulivo? Il funzionario incaricato delle conclusioni, secondo lo stile del partito, non citò nemmeno di striscio il mio intervento, non citò nemmeno l'Ulivo se è per questo, ma parlò delle luminose sorti che aspettavano il partito (ops, il Partito), delle due gambe e di altre amenità. Il governo Prodi era ormai morto e sepolto, anche se ne ebbi la certezza solo dal televideo, una volta tornata a casa; e le luminose sorti del partito si tradussero nel governo D'Alema. Come è andata a finire lo sappiamo (e sto ancora aspettando l'occasione per rinfacciare a quel brocco di intellettuale la “sua” scarsa lungimiranza).
Questa volta è andata molto diversamente, anche se la sensazione di déjà vu è opprimente. Ma è un déjà vu del tutto superficiale, e riguarda la forma più che la sostanza; non c'era niente, in questo secondo governo Prodi della tensione ideale, delle aspettative, delle speranze che traboccavano dal primo. E la sua morte era nelle cose, come quando muore un lontano cugino malaticcio dalla nascita, che ci si spende giusto un pensiero, lo si sapeva che prima o poi sarebbe successo. Restava solo da sapere quando, e chi sarebbe stato, stavolta, il sicario. La cosa certa era che ci sarebbe entrato D'Alema, che da vent'anni c'è sempre quando c'è da sbagliare qualcosa, poiché è indubbio che da vent'anni è il miglior politico italiano.
A stento mi trattengo dal sibilare fra i denti un “io l'avevo detto”. Non ne vale la pena, e poi, chi mi ascolterebbe?

Contro Michele Serra
“Si capisce, uno ha tutto il diritto di coltivare i suoi ideali integerrimi. E di sentirsi eletto dal popolo lavoratore anche se è stato spedito in Senato da una segreteria di partito. Uno ha tutto il diritto di rivendicare purezza e coerenza, così non si sporca la giacchetta in quel merdaio di compromessi e patteggiamenti che è la politica. Però, allora, deve avere l´onestà morale di non fare parte di alcuna coalizione di governo. E deve dirlo prima, non dopo. Deve farci la gentilezza di avvertirci prima, a noi pirla che abbiamo votato per una coalizione ben sapendo che dentro c´erano anche i baciapile, anche i moderatissimi, anche gli inciucisti. A noi coglioni che di basi americane non ne vorremmo mezza, ma sappiamo che se governano gli altri di basi americane ne avremo il triplo. Invece no: questi duri e puri se ne strafottono della nostra confusione e della nostra fatica. Prima salgono sulla barca della maggioranza, poi tirano fuori dal taschino il loro cavaturaccioli tutto d´oro e fanno un bel buco nello scafo, per meglio onorare la loro suprema coerenza e la nostra suprema imbecillità. Un bell´applauso ai Cavalieri dell´Ideale: tanto, se tornano Berlusconi e Calderoli, per loro cosa cambia? Rimarranno sul loro cavallo bianco con la chioma al vento”.(L'Amaca di Michele Serra su laRepubblica del 22 febbraio)

Quello che non mi piace, in questo pezzo, è che sposa, e diffonde, la favola del tradimento. Il governo ha ceduto perché i soliti traditori hanno affondato la barca. E' una teoria che pervade tutta la discussione sulla crisi di governo. Ed è una teoria, a mio parere, profondamente consolatoria; e, poiché consolatoria, intellettualmente disonesta (e da qui il mio giudizio tranchant sul pezzo di Serra, che è, di mestiere, un intellettuale).
La teoria è consolatoria perché isola i “malvagi” (due “teste calde”), sui quali ricadono le colpe dell'accaduto, implicitamente vendendo l'idea che, una volta liberatici da questi, tutto filerà liscio come l'olio.
Michele Serra non può non sapere quello che è successo da dieci anni a questa parte. Ma, per venire a tempi più recenti, non può non sapere che nei cinque anni di opposizione, ci si è limitati a fare dell'antiberlusconismo, invece di utilizzarli per fare quello che tutti i partiti europei fanno quando sono all'opposizione: analizzarsi, rinnovarsi, riprogrettarsi e, con una nuova classe dirigente e un nuovo programma, presentarsi agli elettori.
Non può non sapere che, dopo cinque anni, si è scelto di andare alle elezioni con una fragile e improbabile coalizione, da Pannella a Caruso passando per i Consumatori e chissà chi altri, con un programma tanto elefantiaco quanto generico e poco impegnativo.
Che le liste sono state fatte nel chiuso di una stanza da ciascun partito, con il più assoluto disprezzo per gli elettori che le avrebbero dovute votare: per colpa della legge porcata, è vero, ma chi ha impedito ai partiti di accogliere, per esempio, la proposta di alternare i candidati designati dalle segreterie con altri scelti con consultazioni democratiche?
Non può non sapere che Prodi ha accettato di fare il governo sotto dettatura dei partiti, ciascuno dei quali ha dato corso alle pretese di ogni sua, pur piccolissima, corrente.
Che il risultato è stato un governo fatto di 101 persone, il cui solo collante è l'esercizio del potere, e di bassissimo profilo.
Non può non sapere, infine, gli attori sono sempre quelli, sulla scena da vent'anni, con tutto il loro carico di errori, dei quali non sono mai chiamati a rispondere.
Non ci si può meravigliare se da tutto questo è sortita una maggioranza fragilissima, che non è d'accordo su quasi niente, affondabile da chiunque, in qualsiasi momento, su qualsiasi argomento.
Nascondersi dietro alla teoria del tradimento significa impedirsi di cogliere le vere responsabilità e, soprattutto, ciò che sarebbe il compito di un intellettuale, di additarle con chiarezza.


Italia vendesi
Filippo Facci sul blog
Macchianera 21 febbraio

Vorrei spiegare per quali ragioni sono contrario all'ampliamento della base di Vicenza e perchè le basi americane situate in Italia andrebbero tutte rinegoziate, a mio parere. E aggiungo, di passaggio, che sono anche stufo di dover sacrificare questa mia opinione al pericolo che venga confusa con quelle espresse in cortei di gente sostanzialmente stupida.
Espongo qualche ragione di principio, in primo luogo.
Un conto è una base Nato, anzitutto, e un altro è una base americana come quella di Vicenza: differenza certo non limpida ma che lascia intatto che il nostro Paese faccia parte della Nato mentre le basi americane restano completamente sottratte alla giurisdizione del nostro Paese.
In altre parole, trattasi di ampie porzioni di territorio cedute a un'altra nazione e sulle quali non è possibile esercitare nessuna forma di controllo, ripeto nessuna.
Significa, per fare un esempio retorico, che dei caccia americani possono partire da una di queste basi e abbattere colposamente una funivia facendo venti morti e poi tornarsene alla base non rispondendo in alcun modo alla giustizia italiana, che è esattamente ciò che accadde nel 1998 con la strage del Cermis.
Ma significa, parimenti, che dei caccia americani possono partire ad esempio da Aviano per bombardare Belgrado, come accadde nel 1999 ai danni della televisione nazionale, comportando accuse di mancata neutralità anche nel caso che una neutralità si volesse o si voglia mantenere. Per ipotesi, dunque, significa che un domani gli statunitensi potrebbero decidere di partire da una base italiana per bombardare chicchessia e questo indipendentemente dall'opinione della nazione che li ospita.
Sergio Romano, sul Corriere della sera, ha dovuto ricordare che condividere la dottrina Bush non significa rinunciare a vedere che l'America tende a scegliere il nemico e a passare all'uso delle armi senza interpellare la Nato. E' successo in Iraq: Washington invocò la Nato solo quando la situazione cominciò a farsi decisamente critica. E' successo in Somalia: gli Usa decisero di bombardare le milizie islamiche partendo da Gibuti e non interpellando gli alleati. Quando gli americani rapirono Abu Omar a Milano, e usarono la base di Aviano come tappa di trasferimento verso l'Egitto, non risulta ci abbiano informato.
Gli Usa, per dirla male, sono in grado di farci diventare automaticamente dei nemici e degli obiettivi prescindendo dalla nostra posizione, e il fatto che oggi si possa condividere la loro azione bellica non toglie che un domani le cose possano esser diverse, col particolare che le basi intanto sono sempre lì, da oltre cinquant'anni, anzi: crescono di numero, perchè il quadro internazionale vede sempre più estendersi i conflitti locali, sicchè è probabile che il passaggio nel nostro territorio di forze straniere si faccia sempre più frequente, e necessiti insomma, a mio parere, di essere ridiscusso.
Le cose sono invero cambiate, da quando nel 1954 fu siglato l'accordo bilaterale tra gli Usa e l'Italia: eppure quel patto rimane tuttora segreto e sconosciuto persino al Parlamento italiano: ai tempi, fu firmato solo dal Governo e non sottoposto alle Camere, e si parla di accordi figli della guerra fredda che riguardano anche la dislocazione di truppe e di missili nucleari.
Ora si straparla di Vicenza, ma nessuno parla del trasferimento da Gaeta a Taranto della base navale Usa, che potrà ospitare anche sommergibili a propulsione nucleare e un centro di spionaggio. Nessuno parla delle forze di terra che dovrebbero esser già state dislocate a Solbiate Olona, vicino a Milano: neppure i nostri parlamentari ne sanno nulla, come se tutto questo avvenisse all'estero, e pare troppo.
E' inutile fingere che il blocco sovietico esista ancora e che in mezzo secolo non sia cambiato niente. E' cambiato, certo, che al posto del blocco sovietico ora c'è il terrorismo internazionale: ma appoggiare chiaramente e lealmente il legame con gli Stati Uniti, come fece il governo precedente e come l'attuale governo annaspa nel fare, non comporta che obiettivi e strategie debbano essere una cambiale in bianco da lasciare acriticamente in mano agli americani: non quando la sua eventuale riscossione, almeno, possa aver luogo anche all'interno dei nostri confini. Avere una politica estera è altra cosa dal delegarla: anche se ancora peggio, debbo ammettere, è non averne alcuna, annacquandola ossia nel neutralismo di una sinistra pilatesca. Fermo restando, però, che stare con gli americani è un conto, essere la loro portaerei un altro.
Di fronte a questo, l'obiezione più umiliante resta quella di chi ti obietta che le basi americane contribuiscano alla prosperità economica dei rispettivi circondari: come se la sovranità nazionale fosse in vendita, e come se il 34 per cento delle spese di stazionamento Usa, secondo quanto dichiarato dalla Commissione Difesa, non fossero a carico del contribuente italiano.
(articolo dapprima concordato e poi non pubblicato dal direttore del Giornale, Maurizio Belpietro)


Brianza Beatle
sul blog
Brianzolitudine 21.02.25

John, sapessi com'è strano vedere
gente di Fiumara in corte d'Agrate
(giusto sulla strada per Vimercate)
pasteggiare a soppressata e poi bere

potente Cirò, udendo da nere
carie su incisivi ben catramate
quella voce dal profumo d'estate
calabra descrivere storie vere

di emigranti, dure, amare e terrone
scritte nella nebbia in quel nord ruffiano
brianzolo, gelido e polentone,

lui, il migrante con l'amore lontano
sugli scogli di Bagnara e il magone
che ingroppa la gola: Mino Reitano.

Che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun (quasi) lo sa. Ma certo non poteva, la brianzolitudine, non approfittare dell'occhio del grande fratello satellitare per entrare nell'enclave del più gajardo e simpatico tra i clan calabresi presenti sul territorio della Brianza County: quello dei Reitano ovviamente, guidato dall'inoxidable Mino.
Nei lontanissimi anni '60 (nel 1968, precisamente), con sagacia calabra e sfacciataggine da vendere il buon Mino Reitano acquistò un ampio terreno pianeggiante proprio ad Agrate Brianza (in via Adda, zona cascina Morosina), grazie ai lauti proventi dei suoi primi grandi successi italiani: Avevo un cuore che ti amava tanto, Una chitarra cento illusioni et similia, per intenderci.
E proprio qui, ad Agrate Brianza, Mino Reitano edificò il suo Regno.
Da allora è profondissimo sud calabro in questa parte di bassa Brianza, con il Mino Reitano simbolo vivente di tutti i tengo famigghia italiani. In quella corte (mai nome fu più azzeccato) agratese, ribattezzata Reitanopoli, lui dà amorevolmente da mangiare a un esercito di fratelli, sorelle, nipoti.
E proprio là, in quel maniero brianzo-calabro tra fratelli mai coltelli e parenti riconoscenti mai serpenti, dove non è difficile riconoscere la casa del grande Mino tra piscine e campi di grano trasformati in campetti di calcio, il grande mito calabrese di Fiumara perpetua la sua fama imperitura di unico e vero quinto Beatle.
Avete capito bene: Beatle. Non Pete Best, non Stuart Sutcliffe, ma solo lui, il Reitano Mino di Fiumara Calabra, è il vero ed unico quinto Beatle sinora misconosciuto, lui che ebbe l'onore e l'onere di esibirsi sedicenne, la sera dell'11 novembre 1960, sul palco del Kaiserkeller club di Amburgo a soli due passi dalla mitica Reeperbahn, fianco a fianco con gli allora sconosciuti Beatles.
Ancora acerba, piagnona e lacrimosa, ma di grandissima suggestione emotiva, la voce dell'emigrante Mino di Fiumara colpì e commosse il duro dei futuri scarafaggi (anch'essi là ad Amburgo emigranti poveri, nella loro prima trasferta amburghese letteralmente con le pezze al culo): John Winston Lennon offrì entusiasta al nostro Mino una birra grande da un litro in una pausa concerto all'una di notte, sorseggiata insieme a Paul, Stu, Pete, George e naturalmente insieme a lei, la allor deliziosa ventiduenne Astrid Kircherr.
Già, proprio lei, Astrid: la fotografa tedesca che aveva creato il loro look e di cui quei giovanissimi Beatles erano tutti stracotti, ma che - ne sono quasi convinto - non fu concupita e posseduta da John, Paul o Stuart in quella notte del novembre 1960, ma da un bel sedicenne terrunciello calabrese, tutto fascino latino baffo nero e mandolino, in una romantica fuitina notturna sul porto fluviale di Amburgo.
E questa storia il buon Mino Reitano se la tiene ancora tutta per sè: italico trofeo e vittoria della sua giovanissima ugola emigrante.
P.S. Pare che il titolo della canzone “I Me Mine” di George Harrison fosse inizialmente “I Me Mino” (con Mino letto all'inglese: maino), scritta in fine carriera e messa nel disco “Let it Be” a fianco di altri successi R&R di inizio ani '60, come “One After 909”.
Fu George Martin ad imporre in sala di incisione, il cambio del titolo da Mino a Mine: John, George Harrison e Ringo erano contrari, Paul invece era d'accordo con Martin: dalla acerba disputa che ne seguì venne il rapido scioglimento dei Beatles.
PP.SS. Mi preme ricordare un'ultima cosa sull'amena vicenda, rimasta nella penna: pare che John quella sera avesse davvero proposto al Mino di diventare uno scarafaggio, ma si rimangiò la cosa il giorno dopo: quando scoprì che quello se l'era fatta con Astrid.
Cherchez la femme, quindi, se volete comprendere perchè il Clan dei Calabresi adesso sia in Brianza e non nei sobborghi di Liverpool. E ogni tanto ancora oggi il Mino mette sul piatto - volume a manetta - l'LP Abbey Road dei Beatles, sedendosi sconsolato sul divano a contemplarne la mitica copertina, con un martellante pensiero denso di rimpianto che lo devasta:
"in fila con loro sulle strisce avrei potuto esserci pure io, vestito da fico fricchettone figlio dei fiori, capello lungo lungo come quello di quel John in testa alla fila indiana, ma non a piedi nudi come Paul: a petto nudo villoso descamisado, e una bellissima catenazza d'oro al collo...


Niente di nuovo sotto il sole
sul blog Placida signora 25 febbraio

Una matrona che patisce d'etica,
che sol dei grandi nelle case pratica,
parla aggiustata più che la grammatica
e squarta zeri più che l'aritmetica.

Ha più finzioni dell'arte poetica,
ha più misure della matematica,
ha la faccia megarese e par socratica,
zelante a prima vista, in fatti eretica.

Par religiosa, e pur di fede è gotica,
mostra d'amar la pace, e sempre litica,
è più fine d'ogn'altro, e fa la zotica.

Lesta a raccòrre, a seminare stitica,
ha la coscienza con tanto di cotica:
eccovi dimostrata la Politica.

(Giovanni Saccenti, 1687-1749)



   25 febbraio 2007