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La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 31 dicembre 2006



Mai più patiboli
Paolo Mieli sul
Corriere della Sera

L'impiccagione di Saddam Hussein chiude in modo orribile una vicenda che fin all'ultimo istante avevamo sperato potesse avere una fine diversa. Orribile, abbiamo detto, non soltanto perché così da tempo ci appare ogni esecuzione di condanna a morte, ma anche per il fatto in sé che inchioda la tragica avventura della guerra irachena a un episodio lugubre destinato a pesare sulle coscienze di tutti. Di tutti sì, persino su quelle di chi nel 2003 si dissociò senza indugi dal conflitto mesopotamico.
Non ci è sfuggita nei giorni scorsi una curiosa esitazione da parte di studiosi vicini all'amministrazione Bush, quali Daniel Pipes, Paul Berman, Peter Galbraith, che pure hanno giudicato eticamente legittima l'uccisione del dittatore di Bagdad. I tre hanno giustificato la decisione di far salire quell'uomo sul patibolo; ma si sono poi sentiti in dovere di aggiungere che il processo è stato contrassegnato da "una procedura affrettata e incompleta" (Pipes); che stavolta l'"uccisione del re", a differenza di quelle nel 1649 di Carlo I d'Inghilterra e nel 1793 di Luigi XVI in Francia, "non risolve nulla dal momento che in Iraq non è sorto un nuovo stato in sostituzione del precedente"; che non si può dimenticare che "noi americani eravamo alleati di Saddam mentre lui uccideva con i gas i suoi concittadini a decine di migliaia, sicché non dico che siamo complici ma siamo colpevoli di aver fatto finta di non vedere" (Galbraith); che adesso c'è il pericolo che "per gli insorti Saddam diventi un martire" e che "il conflitto fratricida tra sunniti e sciiti si ingigantisca e renda ingovernabile l'Iraq" (Pipes).
Altri hanno sottolineato la stravaganza della condanna a morte di Saddam per la strage di 148 sciiti nel 1982 a Dujail (fu la rappresaglia per un attacco al convoglio presidenziale) dal momento che ora il tiranno non potrà essere sottoposto a processo per reati incommensurabilmente più gravi consumati negli anni Ottanta quali l'uccisione di decine di migliaia di curdi e l'uso di armi chimiche nella guerra all'Iran. Altri ancora hanno messo in risalto come, a dispetto del fatto che il tribunale sia stato composto da iracheni, in terra irachena e abbia giudicato in obbedienza alle (attuali) leggi irachene, si sia trattato pur sempre di una giustizia dei vincitori a danno di un vinto.
Ma a noi sembra che tutte queste considerazioni — condivise da chi in un modo o nell'altro ha giustificato l'esecuzione e da chi invece quella messa a morte l'ha condannata e nella misura del possibile contrastata — colgano solo una parte della questione. Questione che va ricondotta a un punto di principio: non è, non può essere ammissibile che un tal genere di processi possa svolgersi in situazioni in cui sia anche solo contemplata la pena di morte. Il problema si pose già alla fine della Prima guerra mondiale quando, nel 1919, uno specifico articolo del trattato di Versailles impegnò i vincitori a trascinare alla sbarra Guglielmo II quale responsabile del conflitto (ma l'Olanda rifiutò di consegnare l'imperatore e il caso fu così risolto). E si ripropose a conclusione della Seconda guerra mondiale con i processi ai "vinti" che si tennero a Norimberga e a Tokyo.
In entrambi i casi, pur dopo dibattimenti che avevano offerto agli imputati maggiori garanzie di quelle riservate oggi a Saddam, si ebbero sentenze che non hanno mai smesso di provocare tormenti. In Germania già il dibattimento fu parzialmente minato nella sua credibilità per il fatto che evitò, a dispetto delle evidenze, di discutere il coinvolgimento di una potenza vincitrice, l'Urss, nell'aggressione alla Polonia, episodio da cui (nel settembre del '39) aveva avuto inizio la guerra; e alla fine capitò curiosamente che ebbero una pena relativamente lieve Baldur von Schirach e Albert Speer di cui era palese il coinvolgimento con i crimini hitleriani e fu invecemandato a morte (assieme a una decina di alti gerarchi nazisti) Julius Streicher, direttore di una rivista antisemita,
Der Stürmer colpevole d'un reato, per quanto odioso, "d'opinione". In Giappone una corte che (a differenza del tribunale di Norimberga formato dopo una complessa negoziazione tra le potenze vincitrici) era stata designata personalmente dal generale MacArthur, decise l'impiccagione del ministro degli Esteri Hirota Koki, di quello della Guerra Itagaki Seishiro e di altri cinque alti ufficiali ma, con motivazioni tutte politiche, lasciò in vita (e sul trono) l'imperatore Hirohito con il principe Asaka. Talché anche i contemporanei furono assaliti dal dubbio. Piero Calamandrei, che pure aveva giustificato il processo di Norimberga, in un celebre articolo sul Ponte domandò "perché gli imputati si sono trovati solo tra i vinti? e perché i giudici soltanto tra i vincitori?" Oggi l'elaborazione di problemi che, come abbiamo visto, sono stati dibattuti per tutto il secolo scorso ci porta a dire che un despota, per quanto gravi siano stati i suoi crimini, o viene ucciso al momento della sconfitta e della sua cattura oppure "deve" restare in vita. Sia processato e condannato a una pena detentiva, o all'esilio, ma mai sia consegnato a Corti che abbiano la facoltà di mandarlo al capestro. Il nostro sistema morale può tollerare un'uccisione a caldo con modalità che sappiamo non verranno mai accertate, ma non può più permettere lo stravolgimento di forme giuridiche per via di un esito che sempre e comunque apparirà scontato in partenza.
La morte di Saddam potrà essere utile solo in un modo: se soprattutto nell'Occidente provocherà un'ondata di riprovazione tale da convincere la comunità internazionale a non consentire che un episodio del genere possa ripetersi. Mai più. In nessuna circostanza. Per nessun motivo.



Un tragico errore non un crimine
Eugenio Scalfari su
la Repubblica

È stata una vendetta degli sciiti contro il sanguinario tiranno che li aveva oppressi per trent´anni nonostante fossero la maggioranza di quel paese disegnato col gesso fin dai tempi del mandato britannico negli anni Venti del secolo scorso? Sì, certamente, c´è stato anche questo sentimento a innalzare il patibolo cui è stato impiccato all´alba di ieri Saddam Hussein.
È stata la vendetta degli americani per i tremila morti e i sessantamila feriti subiti dall´esercito Usa nei tre anni di guerra e di guerriglia dal 2003 fino ad oggi? Certamente sì, è stato anche questo.
È stato un processo politico quello celebrato dal tribunale speciale di Bagdad e confermato da una Corte d´appello anch´essa politica, con tutte le irregolarità e la faziosità dei processi politici? Sicuramente sì, la sentenza era già scritta fin dall´inizio e ancor prima, da quando il tiranno fu catturato tre anni fa, nella tana in cui si era nascosto, dopo la spiata d´un delatore della sua scorta.
Che cosa c´è di strano e vorrei dire che cosa c´è di immorale in tutto questo? La morale non c´entra con i processi politici, da quello che costò la testa a Carlo I Stuart, re di Inghilterra e di Scozia, fatto decapitare dal Parlamento di Oliver Cromwell, e dal processo che portò alla ghigliottina Luigi XVI, re di Francia, per ordine della Convenzione e del Comitato di salute pubblica.
In tutto ciò non vedo ragioni di scandalo né di illegalità. Nella legislazione irachena è prevista la pena di morte. La religione islamica la consente per i nemici della fede e Saddam certamente lo era; non era sciita e nemmeno sunnita: dal punto di vista religioso Saddam era un miscredente, la sua ideologia - ammesso che ne avesse una - era baathista, socialistoide, para-nazista.
Quanto alla cultura giudiziaria della cristianissima America, la pena di morte è prevista anche lì e praticata nella maggioranza degli Stati dell´Unione; dunque anche da questo punto di vista non ci può essere ragione di scandalo ma soltanto di non condivisione da parte dell´Europa civile che ha abolito da tempo la pena di morte dai propri codici. E da parte della Chiesa che considera sacra la vita d´ogni persona indipendentemente dai misfatti che possa aver commesso.
L´impiccagione era desiderata da molti. Degli sciiti iracheni si è già detto. Per una larga parte dell´opinione pubblica americana era un fatto scontato, una rappresentazione attesa e quasi ovvia. Ma anche gli ayatollah di Teheran volevano la morte del loro implacabile nemico e anche i curdi avevano con lui duri conti da regolare.
Infine è stata la giustizia dei vincitori contro i vinti. Molti rifiutano e anzi condannano questa logica, ma io ci vedo una buona dose di utopia e una dose anche maggiore di ipocrisia in questa condanna. La storia è sempre stata scritta dai vincitori e i processi, non solo quelli politici, sono sempre stati loro a vincerli. E poiché storicamente i vincitori di ieri possono diventare i perdenti di domani, allora vengono riscritti i fatti e perfino i processi, cambia il giudizio ma non la logica che gli sta dietro e sono sempre i vincitori a dettare la legge, quelli di ieri applicata sul terreno e quella di domani che ne ispirerà la revisione.
Se Spartaco avesse vinto, se Pompeo avesse trionfato su Cesare, se Marc´Antonio avesse sconfitto Ottaviano, se a Marengo gli austriaci avessero battuto Napoleone, la storia sarebbe andata diversamente e il futuro revisionismo avrebbe avuto versioni diverse perché a questo mondo tutto è meno relativo della verità.
Una cosa però è certa: le rare volte nelle quali i più deboli riescono a sovvertire la logica dei più forti, allora si verifica una rivoluzione, si produce un trauma sconvolgente. Capita di rado ma talvolta accade. Accadde a Valmy quando l´esercito straccione dei coscritti giacobini sconfitte le armate ben più potenti dell´Austria e della Prussia e l´idea di nazione travolse in tutta Europa l´antico regime dinastico.
Purtroppo sta accadendo a Bagdad. Dico purtroppo perché gli Stati Uniti d´America sono parte integrante dell´Occidente, anzi sono parte preponderante dell´Occidente al quale noi europei apparteniamo con titoli ancora maggiori di loro anche se mossi da diverse motivazioni e soprattutto diverse metodologie.

* * *
Ora in Iraq l´America di George Bush dopo tre anni non ha vinto la guerra, il che significa che la sta perdendo. Questo è un fatto rivoluzionario. L´armata americana, la flotta aeronavale americana, la tecnologia americana, la ricchezza americana, stanno perdendo la guerra contro bande di terroristi e sparute milizie guerrigliere di jihadisti, saddamiti, sunniti e sciiti filo-iraniani.
Ma le difficoltà dell´impero americano non riguardano soltanto il teatro iracheno che sarebbe, tutto sommato, poco più d´un episodio per la superpotenza mondiale.
In realtà si estendono a tutta la regione mesopotamica, da Suez e dal Sinai fino alle montagne afgane, ai confini del Pakistan, alle repubbliche ex sovietiche dell´Asia centrale. Il gigante cinese s´è risvegliato ed è entrato come consumatore di petrolio sul mercato mondiale. Le sue riserve in dollari sono seconde dopo quelle giapponesi, come dire che tiene per la coda il mercato finanziario di Washington e quello borsistico di New York. I capitali e le iniziative mercantili cinesi sono presenti in forze su tutta la costa occidentale americana, dal Messico all´Alaska. Mai come oggi il pianeta era stato così multipolare e mai come oggi l´America era stata circondata dall´ostilità dell´opinione pubblica internazionale e la Gran Bretagna di Blair insieme con lei.
Infine la guerra contro il terrorismo, come gli osservatori di tutto il mondo constatano, sta andando di male in peggio soprattutto nella regione mesopotamica. Lo scontro sunnita-sciita minaccia trasversalmente la penisola arabica, ma è pronto a colpire unito il nemico americano e il suo avamposto, Israele.
Questo è il quadro e sarebbe difficile leggerlo diversamente.

* * *
In questo quadro l´impiccagione di Saddam Hussein non è un crimine come lo definiscono alcuni moralisti, ma è assai peggio d´un crimine come avrebbe detto il principe di Talleyrand: è un mastodontico errore.
Se lo si voleva uccidere, con o anche senza processo, bisognava farlo subito al momento della cattura. Ma oggi! Oggi sarà una bandiera martirologica nelle mani di Al Qaeda e della Jihad, delle frange ribelli dei sunniti dell´Iraq centrale, dei settori radicali di Hamas e di Hezbollah, delle madrasse pakistane e afgane.
Si sta formando in quella vasta zona del mondo che si trova ad un punto d´intersezione geopolitico ed economico, al centro dell´immenso continente euro-asiatico, tra il Caspio e il Caucaso, triconfinario tra l´Est, l´Ovest e il vicino Oriente, con la Russia di Putin a far da cerniera, una sorta di stranissimo califfato. L´impiccagione di Saddam servirà pochissimo a Bush e soprattutto all´America, ma servirà abbastanza ai suoi nemici. Accrescerà l´indifferenza di molti, l´astio di moltissimi, l´amicizia di pochi. In quello strano califfato senza califfo esistono molti sceicchi che vantano proconsolati locali in gara di visibilità tra loro, una situazione da brivido, che tenderà non dico a divaricare l´Europa e gli Usa ma certo a sottolinearne le differenze.
Può darsi, anche se le difficoltà sono notevoli, che questa multipolarità planetaria spinga l´Europa continentale e in particolare l´Eurozona e i paesi fondatori della Comunità a rilanciare il progetto dell´unità politica costruendo la seconda gamba dell´Unione, azzoppata un anno fa dal referendum francese. Questo ha detto Ciampi nell´intervista pubblicata ieri dal nostro giornale e questo è anche inserito a chiare lettere nel programma del governo Prodi.
La nostra opinione pubblica ha, secondo me, trascurato questo aspetto della politica del centrosinistra. Forse perché su questo punto non ci sono diversità tra le varie componenti dell´Unione e quindi non ci sono notizie di scontri interni da utilizzare come coriandoli quotidiani.
Non c´è l´uomo che morde il cane. Ma attenzione: in un mondo sconquassato e inquieto la vera notizia è proprio quella che, almeno su un punto essenziale, gli uomini non mordono i cani, ma tornano a comportarsi da uomini responsabili e pensosi di un futuro che riguarda loro e i loro figli e nipoti.


L'affare delle lauree on line
Gian Antonio Stella sul
Corriere della Sera

"Dottor Figus, lei dove ha studiato?". "Al Cepu". "Chiaro! Come mai non si sveglia, il paziente?" La scenetta di Tel chi el telùn era solo una delle tante in cui Aldo, Giovanni e Giacomo hanno scherzato per anni sul più famoso centro che "aiuta" gli studenti a studiare. Anche nell'ultimo film dei tre, Anplagghed, i protagonisti sono "un robot, un terrone e un ingegnere positronico laureato al Cepu". Un gioco: non ci si laureava, lì. Fino a ieri, però: dietro una delle 11 università telematiche autorizzate da Letizia Moratti, alcune un attimo prima di lasciare il ministero, c'è infatti (sorpresa!) anche una creatura clonata dalla società diventata celebre grazie a un martellante spot con Alex Del Piero. Che tra poco, se il ministro Fabio Mussi non si metterà di traverso, potrà finalmente far tutto in casa: lauree comprese. Capiamoci: non è che il Cepu sia il primo centro del genere a portare a compimento il "ciclo produttivo". L'aveva già fatto "Universitalia", che campeggia su Internet e sui giornali con slogan che ricordano i "sette chili in sette giorni". Questo diceva infatti uno spot: "Dieci esami in dieci mesi!" Poi corretto (massì, abbondiamo) in un trionfante: "Undici esami in dieci mesi!". Per essere ancora più "gajarda", la home-page del sito mostra anzi una bella ragazza che impugna bellicosamente i guantoni e colpisce con un sinistro la scritta: "Esami, usa il metodo forte". Il tutto in linea con uno dei protagonisti, Stefano Bandecchi, ex paracadutista, amministratore unico della Edizioni Winner che della Universitalia è azionista al 50%.
Metodi forti, metodi spicci. Basti ricordare che poche settimane fa Sara Nardi, una dei responsabili dell'istituto, è stata rinviata a giudizio dal pm romano Giuseppe Corasaniti per aver ingannato una ragazza con la proposta contrattuale "soddisfatto o rimborsato". Seccante. Come seccante fu il coinvolgimento due anni fa nell'inchiesta della procura di Verona su un giro di "diplomi facili", di Alfredo Pizzoli, oggi amministratore unico dell'Isfa, uno dei soggetti che controllano il Consorzio Risorse Umane, da cui è stata originata, appunto, la Unisu: Università telematica delle Scienze umane. Tutto corretto? Sotto il profilo legale magari sì. Ma anche uno dei docenti, Giuseppe Castorina, ordinario di Inglese alla Sapienza e presidente del comitato tecnico organizzatore dell'ateneo, ha detto al Corriere dell'Università e del Lavoro: "Sapevo che Winner fosse tra i finanziatori del Consorzio ma non che Winner fosse anche Universitalia. Il conflitto d'interessi? Indubbiamente la situazione è equivoca". Dotata di un comitato tecnico organizzatore presieduto da Umberto Margiotta, ordinario di pedagogia alla Ca' Foscari, la Unisu ebbe il via libera dalla Moratti il 10 maggio scorso, un mese dopo la sconfitta della destra e pochi giorni prima che Letizia passasse le chiavi del ministero al successore. Nella banca dati del ministero, per quanto quei numeri vadano presi con le pinze, non risulta avere neppure un docente di ruolo. Zero carbonella, per dirla alla romana. Le facoltà tuttavia sono quattro: Giurisprudenza, Economia, Scienze politiche e Scienze della formazione.
Un miracolo? No. Almeno sulla carta. Nell'Università italiana (a differenza che negli ospedali) non esiste infatti alcuna norma che regoli le pretese di un docente di un ateneo pubblico di lavorare anche per uno privato. Certo, Mussi ha già annunciato di volere cambiare al più presto queste regole perché "non sta né in cielo né in terra che un dirigente della Fiat possa lavorare anche per la Renault o la Bmw". Ma per adesso la situazione è questa: centinaia di docenti sono a carico dello Stato (dallo stipendio agli assegni familiari, dalle ferie ai contributi pensionistici per una media da 150 a 180 mila euro l'anno lorde, un ordinario) come dipendenti pubblici e arrotondano con le accademie private. In particolare le telematiche. Una delle quali, la Uninettuno, che peraltro passa per essere una delle più serie (Economia, Giurisprudenza, Ingegneria, Lettere e Psicologia e un assetto societario che vede in prima fila il Consorzio Nettuno di cui fanno parte anche l'ex ministro dell'Istruzione Giancarlo Lombardi e l'ex direttore generale della Rai Franco Iseppi) ha un docente pubblico addirittura come rettore: Amata Maria Garito. Ordinaria di psicologia alla Sapienza e grande amica di Prodi, che proprio a casa sua attese il 10 aprile i risultati elettorali.
Il fatto è che nell'affare delle università telematiche hanno tentato di buttarsi in tanti. Ovvio: gli studenti fanno tutto in Internet (lì scaricano le lezioni registrate dei docenti, lì trovano le esercitazioni da fare, lì partecipano ai forum didattici, lì "chattano" con la controparte) e possono teoricamente vedere questo o quel "prof." solo il giorno dell'esame. Quindi basta una sede neppure troppo grande, un po' di professori part-time, uno staff che abbia dimestichezza con Internet ed è fatta. Senza alcuna necessità di investire decine di milioni di euro. Ed ecco la Telematica universitas mercatorum, costituita a novembre del 2005 per iniziativa dell'Unioncamere (Presidente è Andrea Mondello, che guida l'associazione): una facoltà (Economia) e due corsi di laurea triennale, Management delle risorse umane e Gestione d'impresa. E poi la Pegaso (due facoltà, Giurisprudenza e Scienze umanistiche, zero docenti di ruolo in banca dati) che ha come azionisti Danilo, Raffaele e Angelo Jervolino, che già hanno interessi in vari istituti scolastici privati partenopei. E poi la Giustino Fortunato (solo Giurisprudenza, nessun docente di ruolo in banca dati) che fa capo alla fondazione Efiro di Benevento, presieduta da Angelo Pasquale Colarusso, già noto nel Sannio per una scuola privata che da molto tempo aiutava nelle rimonte scolastiche. E poi ancora la Leonardo da Vinci, zero docenti di ruolo (per la banca dati), tre facoltà (Scienze dei Beni culturali, Scienze della Formazione e Scienze manageriali) e un legame strettissimo con l'Università Gabriele D'Annunzio" di Chieti-Pescara (nota anche per un gran numero di speedy-lauree) il cui patriarca indiscusso è Franco Cuccurullo, ex-presidente del Comitato etico nazionale nominato da Rosy Bindi per esaminare il protocollo Di Bella, presidente del Comitato di indirizzo di valutazione sulla ricerca e futuro presidente dell'Istituto Superiore di Sanità. E poi ancora la Unitel (zero docenti fissi in banca dati, tre facoltà: Agraria, Architettura e design industriale e Scienze motorie ma con un solo corso di laurea attivato: design della moda) che appartiene a una società di cui fanno parte la Fondazione Renato Dulbecco (28%), l'Associazione centro interdisciplinare studi biomolecolari (12%), Mediolanum comunicazione (8%), Fininvest Servizi (8%) e sbloccata dalla Moratti l'8 maggio scorso, nove giorni prima che si insediasse il nuovo governo. Per finire con la Iul (ancora zero docenti ufficiali, una facoltà, proprietà di un consorzio con l'Università Bicocca di Milano, l'Università di Firenze, di Macerata, di Palermo e la Lumsa…), la Tel.Ma. (un docente di ruolo, Donato Limone, e due facoltà, voluta a quanto pare dal Formez e dall'Anci).
Voi chiederete: ma perché questa corsa? Il miele che attira le api, quelle buone e quelle meno buone, è la possibilità di rastrellare una quantità mai vista prima di "aspiranti dottori". Merito di quella riformetta che permette un po' a tutti di "mettere a frutto il proprio lavoro". Facendosi riconoscere, sulla base dell'esperienza accumulata come ragionieri o guardie forestali, giornalisti o vigili del fuoco, impiegati catastali o brigadieri dei carabinieri, una gran quantità di crediti formativi universitari (fino a 140, prima che Mussi imponesse un tetto massimo di 60 su 180) così da poter puntare a una laurea con pochi esami. È vero: l'hanno fatto un sacco di atenei, anche tra quelli additati come "più seri". Ma alcuni ci hanno dato dentro alla grande. Come la telematica "Marconi", che risulta avere fatto la bellezza di 30 bandi di gara per docenti ma di averne a carico due soli: il ricercatore Umberto Di Matteo (nemmeno confermato, pare) e l'ex senatore democristiano e poi aennino Learco Saporito, già sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Berlusconi. Rettore: Alessandra Spremolla Briganti, fino a qualche mese fa ordinario a Roma Tre. Proprietà: la Fondazione Tertium. Facoltà: Lettere, Giurisprudenza, Economia, Scienze e tecnologie applicate, Scienze della formazione, Scienze sociali. Amatissime, stando alla raffica di convenzioni sbandierate su Internet, da un sacco di associazioni di categoria. "Avevamo la fila alla porta di gente che voleva laurearsi e ci proponeva mille o duemila iscritti a botta", spiega Francesco Paravati, responsabile del marketing della Uninettuno che quasi si vanta di avere solo 600 iscritti contro gli oltre quattromila della Marconi. Il delegato di un gruppo di agenti di custodia, racconta, "arrivò a dire chiaro e tondo: la laurea ci serve solo per passare di grado. Non daremo fastidio a nessuno, non faremo danni usandola. Le altre ci riconoscono cento, centodieci crediti… Perché voi no?".
Restava il giallo su chi stesse dietro l'undicesima università telematica, la E-Campus, approvata il 30 gennaio scorso. Di chi poteva essere? E perché la proprietà aveva ritenuto opportuno starsene nell'ombra dietro due finanziarie? Finché, passin passino, siamo arrivati a capo del mistero: dietro c'è, come dicevamo all'inizio, il gruppo di Francesco Polidori, fondatore del Cepu. Come mai tanta riservatezza? Chissà, perché forse qualcuno al ministero avrebbe potuto ricordare non una ma quattro sentenze dell'Autority per pubblicità ingannevole. L'ultima è di tre anni fa.


Le mostre dell'anno: dal Caravaggio alla Cina
Alberto Arbasino su
la Repubblica

Il leggendario "Caravaggio Odescalchi" abita da lungo tempo in Piazza SS Apostoli, a poco più di un chilometro dall´altra "Conversione di San Paolo" in Santa Maria del Popolo. Ed era oggetto di raffinati gossip artistici, perché aveva avuto un´esistenza più mossa. Pervenne infatti nella grande casata romana, per matrimonio, dalla altrettanto illustre famiglia e collezione genovese dei Balbi, ove stava dalla fine del Seicento. Però, al momento della divisione fra i sei figli e figlie, vi fu una famosa promessa o proposta d´acquisto in cash da parte del raffinatissimo e agiatissimo "connaisseur" Luigi Magnani, caro vecchio amico che andava acquistando per la sua Fondazione, tuttora fiorente, "il Goya di Firenze", "il Dürer di Bagnacavallo", "il Tiziano di Genova", "la spinetta di Beethoven", i Morandi più belli e un´immensa coppa di malachite zarista, e Rubens, e Cézanne... Ma il gossip lentamente si spense, quando Guido e Nicoletta Odescalchi rilevarono dai coeredi questa sensazionale "Conversione di San Paolo", montandola in una sala del palazzo, su un perno che permetteva di girarlo meglio agli sguardi e alla luce, sopra i divani abitati dalla famiglia.
Riapparve in circostanze molto sconsiderate, in una mostra "degli Anni Santi", negli anni Ottanta, in Palazzo Venezia: posato per terra, in un angolo tra due finestre, senza la cornice, e con davanti un faretto da tre soldi a tre zampe. Senza protezioni o precauzioni. Agghiacciante. E più tardi, in una originale sistemazione a lucine mutanti, a cura di Mina Gregori in Palazzo Pitti.
Adesso, in Santa Maria del Popolo, ripulita e sistemata per la prima volta accanto alla successiva notissima e turistica "Conversione di San Paolo" nella scomoda Cappella Cerasi, in un opportuno inquadramento grigio-cenere che fa ben risaltare i bagliori rossi dei manti, suscita commenti e riflessioni fra antichi e nuovi fruitori e utenti.
Anzitutto, ovviamente, le osservazioni "paragoniane" sulla strabiliante diversità nella ricchezza delle invenzioni, tra un Saulo (o Paolo) e il cavallo e il contesto, nell´identica circostanza di una caduta. Incidenti che una volta capitavano spessissimo, anche per sport; e nel caso di Luigia Pallavicini, poi sopravvissuta galantemente per ben quarant´anni, provocavano conversazioni, piuttosto che conversioni. E tutt´al più un´ode del Foscolo: "I balsami beati, per te le Grazie apprestino".
Qui, invece, la differenza sta nella concezione: inizialmente piena di manierismi, torsioni, addobbi controluce (alla Luchino Visconti), e invece poi nuda e cruda, nel Buio e nel Nulla, uso Brecht, Strehler, Grotowski... All´interno, vanno subito considerate le luci di scena e i simboli. Davanti a un Saulo caduto da cavallo, Foscolo non avrebbe dubbi: "Pe te i lini odorati, che a Citerea porgeano... Di Cintia il cocchio aurato". (Ancora Gianfranco Contini chiamava "cocchio" il taxi. E l´ambulanza per il pronto soccorso, quando al galoppatoio di Villa Borghese si cadeva parecchio? Ma fra le conseguenze, talvolta, "l´infelice perse il senso dell´odorato". E in casa, fra i gatti, si avvertiva.
Per i riflettori di tipo cinematografico (trattandosi di Luce dall´Alto), ritornano ovviamente in flashback i versi di Pasolini che domanda all´operatore Tonino Delli Colli di mettere un cinquemila piuttosto che un diecimila, o non so. Comunque, nella versione caravaggesca definitiva siamo in un "interno notte", e quindi un faro o spot e buonanotte. Invece, nella prima (Odescalchi), essendoci già un tramonto giallo nel fondale-panorama, la sorgente dev´essere diversa, dando ragione alle elucubrazioni tecniche di David Hockney sulle fonti di illuminazione. Non per niente, lì a Santa Maria del Popolo, la Crocifissione di San Pietro vis-à-vis è priva di luci "da conversione" o conversazione. E viene gestita da manovali "feriali" spelacchiati e sdruciti che presentano allo spettatore un anziano e sformato "fondoschiena": altro che le vezzose "chiappette" di tanti torturatori bellocci in collant, dal Quattrocento al Manierismo. E non solo fiorentini alla moda, ma anche lombardi rustici nel Foppa di Sant´Eustorgio.
In quanto al cavallo, viene generalmente lodato quello pezzato ultimo, giacché nella versione Odescalchi la testa appare innaturalmente girata, agitata e sbavante, rispetto alla groppa un po´ statica. Ma qui gli esperti di concorsi ippici osservano che ogni cavallo cadendo sbatte il muso anche a 180 gradi nel senso contrario alla tombola.
Però la curiosità più iconologica non viene molto solleticata da Saulo ormai persuaso e giacente, fra gli eleganti sbuffi del manto rosso, giustamente valorizzati dal restauro e dall´inquadratura cinerina. E nemmeno poi dal Cristo, anche lui un po´ feriale contro il cielo giallo del tramonto "western", con un angiolotto fratellino di tutti quei minorenni abbigliati da Sangiovannino o Bacchino o liutista, o magari morsicati da varie bestie giacché scalzi.
Qui, soprattutto "intrigante" e protagonistica risulta piuttosto la figura centrale del vecchio palafreniere, con barba bianca biforcuta da eremita molto malvissuto, e piume in testa da garzoncello scherzoso e vanesio. Gli si vede una mezzaluna sullo scudo, oltretutto. E questo scudo è poi lo stesso tondo verdino che in altra occasione caravaggesca (meno musulmana?) reca la testa della Medusa. Ma nella giungla vegetale e animale dei simboli fra i piedi a tutti loro, nell´ombra, non si troveranno magari ingredienti dei ricettari alchemici per gli esperimenti o divertimenti del ghiribizzoso Cardinal Del Monte nel casinetto suo fuori porta?
... E mo´, altri Caravaggi autenticati alla Stazione Termini? Arrivi e partenze. Ma quando i capolavori e le stars ormai arrivano in aereo privato e non più in treno, non sarebbe piuttosto opportuno presentarli a Fiumicino o a Ciampino?...

[ * * * ]
Per chi lo vide riprodotto nelle immagini "classiche" o "canoniche", o con un´emozione diretta lì per lì, prima dei restauri (o diminuzioni) di mezzo secolo fa, il Laocoonte col braccio destro levato e avvolto dal serpente era un´icona o feticcio indimenticabile, che mai si sarebbe dovuto alterare. Alla faccia dell´autenticità filologica: così come in certe età parve un importuno scrupolo il rimuovere stucchi o altari barocchi dalle pareti romaniche o gotiche ov´erano stati ammirati per secoli. O addirittura, le mani e i piedi aggiunti da artisti buonissimi come Bernini e Canova alle opere mutile di scultori antichi di copie talvolta non eccelse.
Il ricco Laocoonte di Salvatore Settis (Donzelli, 1999) e l´attuale mostra omonima ai Musei Vaticani offrono abbondanti documentazioni su mezzo millennio di studi e miti e teorie e pratiche. Illustrate ora nelle bacheche ordinate da Francesco Buranelli e dai collaboratori. Con trame affascinantissime che si aggrovigliano e dipanano fra l´erudizione e la fantasia, la storia e le statue, gli epistolari fra emissari e Corti, le invenzioni letterarie e poetiche anche retoriche e scurrili. Raffinatezze, frivolezze, personalità risentite, disquisizioni sulle tecniche di fusione dei bronzi e sui giramenti dei perni nei marmi, lastre tombali da decifrare, questioni di soldi e di saldi...
E le evidenze possono essere interessantissime: a parte quel mezzo braccio "aggiunto", che benché autenticato pare girevole come una protesi ortopedica (direbbe il Longhi). Da vicino, la copia bronzea del Primaticcio e aiuti per Fontainebleau sembra lisciata e manicurata come il nuovo Marc´Aurelio in piazza, o come lo sventurato "San Sebastiano" d´Antonello a Dresda che dopo la lavanderia delle patine pare "dopo l´acquazzone" (come direbbe il solito Longhi). Come sono più raffinati i reperti di Sperlonga! Ma soprattutto è affascinante la documentazione sull´iter della messa a punto della mitica icona marmorea, attraverso le copie e copiette in marmo e bronzo e terracotta e porcellana. Soprattutto nelle incisioni, "medium" che qui si constata incomparabile. E sempre col braccio alzato, sia del padre che dei figli...
Certo, serpenti astanti o assenti possono proporre suggestioni esoteriche e iniziatiche, secondo Warburg e Baltrusaitis e Calasso e Tiepolo. Come gli obelischi, del resto: senza l´obelisco (collocato alla fine del Settecento), la Piazza del Quirinale appare nelle incisioni di Piranesi quale un Monte Cavallo con i due cavalli dei Dioscuri e le Scuderie Pontificie. Dunque un messaggio più ippico che non misterico. Questo può risultare invece dalle foto aeree, almeno secondo la retta fra gli obelischi significativi della Trinità (dei Monti) e di Santa Maria (Maggiore). Ma se i serpenti sono rotti e non completi, il senso occulto da Flauto magico sarà intatto o monco? (E vi saranno interazioni eventualmente maliziose fra l´aspide di Cleopatra e quello caravaggesco nella "Madonna del serpe"? E la "pelle di serpente" indossata da Marlon Brando nel film omonimo, ai danni di Anna Magnani?).
Anche il Fauno Barberini appare depauperato dai restauri, a Monaco. Ma una Vittoria senza ali o una Libertà senza fiaccola, che effetto farebbero - col "gesto" ridotto - sull´Immaginario individuale e collettivo?
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Cina e Xian, che nidi di memorie. Ancora nel 1980, la Gita a Xian era un miraggio. A Pechino, una distesa di casine a un piano e muretti e ortini e galline, e né grattacieli né autostrade urbane. Con Luzi e Sereni e Malerba si era ospiti del loro Sindacato Scrittori, dunque con impossibilità di muoversi da soli perché le guide erano sorridenti e inesorabili. Anche nel negare smaccatamente le evidenze. Ma del resto, senza mezzi o uffici a cui rivolgersi non ci si poteva spostare comunque. Si era poco dopo l´età di Mao, e l´unico svago serale era il processo alla tremenda Chiang Ching in televisione. Ma le mentalità perduravano.
Siccome avevamo nel programma anche la tappa a Xian, come a Shanghai e Canton e Suchow e Hangchow, per tre giorni siamo andati dall´albergo all´aeroporto con le valigie. E ogni volta gli accompagnatori sostenevano che i voli interni erano cancellati a causa delle nebbie, mentre sui tabelloni davanti al naso scattano le regolari partenze anche per Xian, in caratteri e cifre internazionali. E loro: non sono attendibili.
La terza volta che ci vedono tornare affranti, i camerieri dell´albergo scoppiano a ridere e m´invitano nelle loro stanze a vedere in tv dei film, di guerra, e ad ogni eroismo patriottico si buttano urlando per terra. Tirandosi poi su per sgranocchiare semini. Si stufano invece a vedere Chiang Ching nella cronaca quotidiana del processo: interprete straordinaria che ha chiaramente studiato Greta Garbo e Bette Davis (altro che "mediocre attricetta"), benché fisicamente somigli parecchio alle direttrici che nei nostri telefoni bianchi sgridavano sempre Alida Valli e Carla Del Poggio. (Non certo una "Evita"). Fra i giudici, oltre tutto, dei Luigi Longo e Antonin Artaud e Henry Miller cinesi, come dei Ping e Pang e Pong in una Turandot modernizzata.
Così, anni dopo, quando il Maggio Fiorentino portò una Turandot antichizzata e ri-cinesizzata in una Pechino devastata dai grattacieli qualunque, l´andata a Xian era ormai facilissima. I guerrieri di terracotta erano là nelle loro fosse con scavatori all´opera - o piuttosto, show turistico - sotto un grande hangar e davanti alle gradinate fisse per sistemare i gruppi. Niente di spostabile. E gli astuti cinesi vendevano lì attorno perfette copie anche più facsimili degli esemplari poi smascherati quando vennero esposti da Parigi a Lugano nei grandi magazzini con le offerte speciali. Speriamo che fossero veri quelli presentati all´epocale mostra al Metropolitan di New York, nell´estate 1980. Ma a Xian apparvero notevolissimi sia l´enorme e deserto museo moderno di bronzi e giade e bruciaprofumi e campanelle della capitale antichissima, sia l´intatto e pittoresco suk degli arabi o persiani qui giunti dalla notte dei secoli.
Insomma, decenni ancora dopo, l´ottima mostra cinese alle Scuderie quirinalizie suscita flashbacks storici intensi, anche perché (non da conoscitori, ovviamente) si rivedono magnifici manufatti molto simili alle care memorie. E in antiche toilettes pop in placchette di plastica uso giada. Ma ora in circostanze assolutamente agili, se paragonate alle coercizioni d´una volta. I più piccolini sono molto attraenti, nelle formazioni multiple di Luca Ronconi. Però, in quegli spazi sempre difficili all´ultimo piano, che meraviglia sarebbe stata un plotone d´uomini e di cavalli come nei chioschetti dei falsari intorno agli hangar dello Shaanxi. (O come nelle "Galeries" parigine).

P. S. - Agli ottimi concerti "ceciliano-shostakoviani" dell´amato Gergiev col suo caro Mariinskij, si avanza un tema conduttore: la magnifica Settima Sinfonia di Shostakovich, celebrata come "La Leningrado", dopo un´esecuzione così alternativa di fragori epicissimi e di dormiveglia sotto la trapunta, non si potrebbe brechtianamente definire "delle Montagne Russe"?....
Oppure, anche, "Patchwork-Symphonie", grazie alla velocità nella stesura evidentemente dovuta all´estetica avanguardistica del "montaggio delle attrazioni", quando le attrazioni sono materiali preesistenti da montare in "collage". Per chi monta le colonne sonore, ormai è un giocarello professionale quotidiano: manipolando (forse anche digitalmente) i vari pezzetti di questa "Settima" anche nelle esecuzioni più storiche (Celibidache, Mravinskij) si possono facilmente ottenere degli eccellenti Alexandr Nevskij, o Guerra e pace o Stalingrado o Dottor Zivago altrettanto efficaci.
Ma il Boris Godunov in concerto? Senza i manti e i rantoli già così importanti nella musica, l´agonia e morte in smoking sono come una Santa Messa in italiano e in blue-jeans. Meglio in "cd" a casa. Già, Wotan può cantare qualunque cosa, in smoking: e giustamente spostare un dito per dieci centimetri in dieci minuti, come nel miglior Bob Wilson. Ma se Otello e Desdemona e la Traviata decedono lì impalati nel loro mezza-sera senza quei gesti che fanno bene anche ai polmoni, meglio i "dvd"?


Manualistica
Rossella Vita su
Golem l'Indispensabile

Come farsi sposare
. Titolo di un libriccino che mi chiamava da tutte le edicole, mesi addietro. Ma non potevo mai fermarmi, posare la bici, cercare il portafogli nella borsa, aprirlo... Sono sempre in ritardo e, in più, io sono già sposata.
Però c'era qualcosa, in quel titolo, che mi ha spinto a chiedere copia dell'arretrato a un edicolante – fuori dal mio quartiere, per non dar da parlare. Perché volevo appunto vedere in che cosa consisteva quel manualetto. I manuali suscitano sempre il mio interesse, anche se li lascio, in genere, dopo le prime tre pagine. Come Il Metodo Mystery, che ho comprato (anche per una copertina accattivante) di Erik von Markovik, alias Mystery, il quale si definisce "artista del rimorchio" e contemporaneamente erede di Casanova e pronto, come lui, ad innamorarsi continuamente. Come le due parole possano convivere è un mistero, appunto. Non l'ho letto: ma "letto"; ecco, la parola fondamentale è "letto" e credo non abbia niente a che fare con il matrimonio. Ma sempre mi interessano queste maschili teorizzazioni, il loro taglio "scientifico" e razionale, nelle quali per affrontare le donne, come nel gioco e nella guerra, è necessario riconoscere delle regole; quel modo tutto loro di ricondurre il tutto ad una strategia limpida; quel compiacimento nel ridurre il problema ai minimi termini, la sua soluzione alla semplicità della deduzione: e l e m e n t a r e, Watson. Anche un mio amico - Fabio Pastorelli, non credo sia mai diventato un noto seduttore ma a me piaceva molto, forse perché sembrava un disegno di Egon Schiele - pubblicò una decina d'anni fa un analogo trattatello (Tacchi e tacchetti), dove metteva a confronto le tecniche di seduzione e i due modi del calcio, a zona e a uomo... Uno stile un po' diretto, che ostentava un po' la solidità della cosa, ma sortiva un certo effetto nel lettore (su di me uno sconcerto, simile alla immobilità che coglie certi animali in presenza di un pericolo).
Ma quel farsi sposare... mi ravanava in testa, come una domanda insidiosa nel suo apparire insensata. Perché, oggi come oggi, in cui le relazioni sessuali, la convivenza, l'amore non sono liberi, ma fanno finta di esserlo, una donna, una ragazza, un qualcuno, dovrebbe convincere qualcun'altro – evidentemente resistente – a farsi sposare? Come amare e farsi amare, ecco, questo sì sarebbe un bel dilemma.
Fra giugno e dicembre tante ragazze che conosco, chi più chi meno approfonditamente, sono andate spose. E in pompa magna. Mi sono sorpresa di vedere delle giovani, molte laureate, colte, democratiche lavoratrici, riproporre un copione tanto tradizionale e "senza errori", proprio comme il faut: il rinfresco dalla sposa, poi il rito, poi la festa, con invenzioni e colpi di scena per i convenuti... Tutto bello e senza intoppi, organizzato e composto; senza risse, sbronze, scenate. E loro, le spose, felici.
Di alcuni di questi matrimoni ho visto solo le fotografie. E lì ho capito: quelle spose erano Spose, come spose non siamo state né io né molte ex ragazze della mia generazione e di quelle, anche due o tre, precedenti. Esse si sono volute assomigliare in tutto ad una idea, come se quella idea – questo mi ha colpito – fosse immutabile e immutata dai tempi delle loro mamme, nonne, bisnonne... Ecco il ritorno del lungo velo, la bella e ampia scollatura e la gonna a pallone: una nuvola di tulle, una mongolfiera bianca pronta a prendere il volo.
Ho indagato: a loro, che oggi hanno all'incirca trent'anni, non era giunta notizia di certe invenzioni vestimentarie – zoccoli e gonnellone, vestiti "della nonna" o a fiori, inesistenti o strambe acconciature e ancora completi/pantalone in stile pigiama palazzo – o adattamenti domestici e improvvisazioni sulla festa - suonatori amici, bomboniere autoprodotte, pic nic, con qualche disguido, qualche dispiacere – preferiti da cugine, mamme, amiche, cognate anche solo dieci, venti, trenta anni fa. Forse seguivano la moda del momento, ma più probabilmente riconoscevano, in quel momento, nel margine di distanza e di libertà dal "vestito da sposa", un modo per far proprio un rito strano, qualcosa che appariva loro più una scommessa che una decisione: scegliersi per tutta la vita, che pretesa! Un intendimento così irragionevole e velleitario, dettato dalla divinità più instabile dell'Olimpo, bé, merita un po' di sense of humor, di commedia, con tutto il rispetto possibile, ma anche con tutta la consapevolezza e l'ironia di chi qualcosa del mondo, e di sé, non può più non saperla, suo malgrado.
E allora mi è apparso il Tempo, inesorabile come quelli che vanno al sodo, o credono di andarci solo perché barano sulla realtà dell'aria, dell'acqua, di quel che è mutevole e indefinibile. Ecco cosa fa il Tempo: risparmia sugli incisi, le parentesi, le precisazioni. Solo la Storia recupera, ricostruisce i significati, lavora di curiosità. Non è il Tempo a scolpire, è la Storia a dar forma e a riempire il vuoto di certe interruzioni o anche solo il venir meno del racconto, della trasmissione di esperienza. Forse è che di quel che più ha segnato la loro vita – il corpo abitato dall'amore di un amante o di una figlia, le sue ambivalenti vicissitudini, i suoi struggimenti e i suoi splendori - le loro amiche, mamme, zie e nonne hanno, in segno di rispetto, evitato di parlare. Altrimenti non si spiegherebbe perché oggi quelle spose con il velo e le grandi gonne credano di essere "normali" pur essendo simili solo agli sposini sulla torta o a qualche altra illustrazione.


Siate curiosi, siate folli
Steve Jobs su
L'espresso

Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie. La prima storia è su una cosa che io chiamo 'unire i puntini' di una vita. Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? è iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente!". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.
Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.
Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.
Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.
Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.
Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Vi faccio subito un esempio.
Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.
Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.
Insomma, non è possibile 'unire i puntini' guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all'indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.
La mia seconda storia è a proposito dell'amore e della perdita
Io sono stato fortunato: ho scoperto molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Steve Wozniak e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in dieci anni Apple è diventata - da quell'aziendina con due ragazzi in un garage che era all'inizio - una compagnia da 2 miliardi di dollari con oltre 4 mila dipendenti.
Nel 1985 - io avevo appena compiuto 30 anni e da pochi mesi avevamo realizzato la nostra migliore creazione, il Macintosh - sono stato licenziato.
Come si fa a venir licenziati dall'azienda che hai creato? Beh, quando Apple era cresciuta, avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l'azienda insieme a me, e per il primo anno le cose erano andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il consiglio di amministrazione si schierò dalla sua parte. Quindi, a 30 anni io ero fuori. E in maniera plateale. Quello che era stato il principale scopo della mia vita adulta era saltato e io ero completamente devastato.
Per alcuni mesi non ho saputo davvero cosa fare. Mi sentivo come se avessi tradito la generazione di imprenditori prima di me; come se avessi lasciato cadere la fiaccola che mi era stata passata. Era stato un fallimento pubblico e io presi anche in considerazione l'ipotesi di scappare via dalla Silicon Valley.
Ma qualcosa lentamente cominciò a crescere in me: ancora amavo quello che avevo fatto. L'evolvere degli eventi con Apple non aveva cambiato di un bit questa cosa. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo.
Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.
Durante i cinque anni successivi fondai un'azienda chiamata NeXT e poi un'altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna meravigliosa che sarebbe diventata mia moglie. Pixar si è rivelata in grado di creare il primo film in animazione digitale, 'Toy Story', e adesso è lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In un significativo susseguirsi degli eventi, Apple ha comprato NeXT, io sono tornato ad Apple e la tecnologia sviluppata da NeXT è nel cuore dell'attuale rinascimento di Apple. Mia moglie Laurene e io abbiamo una splendida famiglia. Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. è stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente.
Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l'amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro che per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita, e l'unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l'unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l'ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d'amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi.
La terza storia è a proposito della morte.
Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: "Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno avrai sicuramente ragione". Mi colpì molto e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato.
Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che abbiamo sempre qualcosa da perdere. Siamo già nudi. Non c'è ragione, quindi, per non seguire il nostro cuore.
Più o meno un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto la Tac alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Prima non sapevo neanche che cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, che sarei morto entro i prossimi tre, al massimo sei mesi. Quindi sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari (che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire). Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli in pochi mesi tutto quello che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile. Questo significa prepararsi a dire i tuoi addio.
Ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno. La sera tardi è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini, per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie - che era là - mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro e curabile con un intervento chirurgico. Ho fatto l'intervento chirurgico e adesso, per fortuna, sto bene.
Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte e spero che sia anche l'unica per qualche decennio. Essendoci passato attraverso, adesso posso parlarvi con un po' più di cognizione di causa di quando la morte per me era solo un concetto astratto
Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso, in realtà non vogliono morire per andarci. Ma la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. è l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.
Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.
Quando ero un ragazzo, c'era un giornale incredibile che si chiamava 'The Whole Earth Catalog', praticamente una delle bibbie della mia generazione. è stata creata da Stewart Brand non molto lontano da qui, a Menlo Park, e Stewart ci aveva messo dentro tutto il suo tocco poetico. è stato alla fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer e del desktop publishing, quando tutto era fatto con macchine per scrivere, forbici e foto Polaroid. è stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni.
Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di 'The Whole Earth Catalog' e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l'ultimo numero. Era più o meno la metà degli anni Settanta. Nell'ultima pagina di quel numero finale c'era la fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l'autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c'erano le parole: 'Stay Hungry. Stay Foolish', siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish: io me lo sono sempre augurato per me stesso. E adesso lo auguro a voi. Stay Hungry. Stay Foolish.
traduzione di Antonio Dini


La maledizione di Palazzo Marino
Mitì Vigliero su
Placida Signora

Era il 1546 quando il Conte Tommaso Marino decise di trasferirsi da Genova a Milano; aveva 71 anni, un discreto patrimonio ottenuto con i suoi affari da “banchiere”, un carattere infernale e un notevole pelo sullo stomaco.
In pochi anni divenne ricchissimo riuscendo ad aggiudicarsi il Monopolio del Sale proveniente da Venezia e destinato a Genova e Milano; prestando soldi con interessi da strozzino ai Gonzaga, alla Spagna, alla Tesoreria dello Stato di Milano, alla Francia e pure al Papa ottenendo in cambio, oltre titoli e privilegi, anche terreni e palazzi sparsi per tutto lo Stivale.
I suoi affari non erano quasi mai puliti; aveva un esercito di “bravi”, veri pendagli da forca che gli sistemavano i conti in sospeso con avversari e clienti insolventi, oltre scorrazzarlo in giro per Milano con una portantina tutta d'oro.
A 78 anni s'invaghì di Arabella Cornaro, giovanissima e splendida figlia di un patrizio veneziano e discendente diretta della Regina di Cipro; la vide vicino alla chiesa di San Fedele, e decise che sarebbe diventata sua ad ogni costo.
Ne chiese la mano al padre il quale, conoscendo il tipetto, rifiutò seccamente non trovando però di meglio come giustificazione che dire: “Non darò mai mia figlia in moglie a chi non possa farla vivere in un palazzo sontuoso come i nostri a Venezia”.
Detto fatto, il Marino fece rapire dai suoi bravi la bella Ara e ne ottenne la mano promettendo in cambio la costruzione di un palazzo da favola.
Contattò l'architetto Alessi, che ne disegnò il progetto; acquistò con le buone e le cattive tutte le case che si trovavano sul lato sinistro di San Fedele, ne cacciò gli abitanti, le rase al suolo e nel 1558 pose la prima pietra di Palazzo Marino.
Risale ad allora una nota conta infantile: “Ara, bell'Ara, discesa Cornara/ de l'or del fin/ del Cont Marin/ strapazza bardocch/ drent e foeura trii pittoch/ trii pessitt e ona massoeura,/ quest l'è drent e quest l'è foeura”, che, tra parole intraducibili, ricorda il conte e i suoi bravi, che menavano i poveretti con armi decorate dallo stemma del Conte Marino, composto da una mazza (massoeura) e tre pessit (pesciolini).
I milanesi giunsero ad odiarlo e su Palazzo Marino venne lanciata una maledizione:
Congeries lapidum
multis constructa rapinis
aut uret, aut ruet, aut alter raptor rapiet.
(Accozzaglia di pietre, costruita grazie a molte ruberie, o brucerà, o crollerà, o sarà rubata da qualche altro ladro).
La maledizione funzionò, ed i guai arrivarono a frotte; il Marino morì il 9 maggio 1572, a 97 anni, in assoluta solitudine e pieno di debiti causati proprio dalla megalomane costruzione.
Poco prima la bella Ara era stata trovata impiccata al letto a baldacchino della residenza di campagna; infine, tanto per rallegrare la discendenza, nel 1575 la figlia di Tommaso, Virginia, sposata al nobile spagnolo Martino de Leyla, a Palazzo Marino diede alla luce Marianna, la futura Monaca di Monza.
Il palazzo cadde nelle mani degli Spagnoli prima e degli Austriaci poi; nel 1943 venne gravemente danneggiato dai bombardamenti; quindi, nel 1961 divenne sede del Comune di Milano: honni soit qui mal y pense, eh?


Intervista a Davide Parenti
Claudio Sabelli Fioretti su
Corsera Magazine

Un altro giornalismo è possibile? Accanto ai grandi giornali di informazione e di opinione si sta facendo largo qualcosa di diverso? Il Gabibbo è un inviato speciale? Le incursioni delle Iene sono inchieste giornalistiche? Quando chiedono ai parlamentari che cosa è la Consob, quando fanno il test antidroga ai deputati, fanno solo spettacolo. "Il problema dei giornalisti è che parlano come giornalisti e si capisce la metà di quello che dicono", spiega Davide Parenti, il papà di tutte le Iene, oggi impegnato anche sul fronte di Matrix. Ma i giornalisti non dovrebbero essere proprio quelli che dipanano il linguaggio dei politici, che rendono chiare situazioni oscure? Insomma, è più giornalista Enrico Lucci o Vittorio Feltri? "È brutto dire che la nostra “è un'altra forma di giornalismo” e quindi non lo dico".
E com'è che i giornalisti debbono fare i giornalisti?
"Hai una domanda da fare? Falla. Ma diretta. Per noi è più facile perché siamo dei cazzoni, facciamo domande da cazzoni, non abbiamo problemi di deontologia. A noi chiedono spettacolo".
Fammi un esempio.
"Porta a porta è un programma che incontra gli ospiti prima della trasmissione".
Stai parlando di complicità.
"Complicità di domande e anche di ospiti. Se viene Travaglio non viene Berlusconi e cose simili".
È sempre così in Italia.
"Pure le Iene hanno al loro interno germi di combine. Per esempio quando invitiamo qualcuno a una intervista doppia quello ci chiede: “Chi è l'altro?”. E a quel punto può anche scapparci un rifiuto".
Chi ha rifiutato?
"Avevamo combinato un'intervista doppia con due calciatori. Un calciatore non ha voluto l'altro".
Chi non voleva chi?
"Non posso dirlo, ma non lo considerava all'altezza".
Vi credevo più coraggiosi. Anche voi Iene scendete a patti...
"Il passo dopo è “dammi le domande”. Ma noi non gliele diamo".
Mai mai?
"Su 500 interviste doppie, abbiamo dato le domande due volte. Sono state le interviste più scadenti di tutte".
Chi erano gli intervistati?
"Politici".
Qual è il difetto dei giornali?
"Che sono fatti dai giornalisti e sono parzialmente incomprensibili. A volte anche faziosi".
Anche voi, se qualcosa ha a che vedere con il vostro editore...
"Certo può capitare. Ma Mediaset spesso è molto distratta. E noi ne approfittiamo. In linea di massima abbiamo la fiducia dell'editore anche se ogni tanto si incrina. Come per il servizio sul drug wipe, il test sulla droga. Non l'hanno presa benissimo".
Perché l'avete pubblicizzato prima?
"Si potrebbe anche pensare che fosse una grande paraculata perché era la prima puntata e avevamo bisogno di una notizia forte che ci desse attenzione. E in effetti è stato così".
Dicono che la vostra redazione sia scalpitante e tu pompiere.
"Un pompiere serve. L'eccesso non fa mai bene a un programma: accontenta molto una piccola fascia di pubblico ma scontenta i più. In prima serata non te lo puoi permettere".
Da quando c'è il centrosinistra siete più cattivi...
"È possibile. L'ho notato anche io".
Una volta facevate cose contro Berlusconi.
"Le ricordo tutte perché in qualche misura hanno sempre creato delle tensioni. Berlusconi non è più il capo ma le persone stanno attente lo stesso...".
Che non sia più il capo...
"Io non l'ho mai visto dentro Mediaset".
Non lo conosci per niente?
"Non l'ho mai incontrato, ma da quello che so si è lamentato spesso del nostro lavoro. Però non mi conosce".
Di cosa si è lamentato?
"Della nostra “irruenza”. I problemi maggiori li abbiamo avuti quando il trio Medusa, dopo il lifting del Cavaliere, sull'aria di “Bella...” ha fatto cantare ai parlamentari “Brutto...”. L'hanno cantata anche i suoi amici di An. La cosa credo lo abbia infastidito".
Una volta ha detto: "Le Iene non hanno il senso del limite"...
"Il trio Medusa era andato a dargli fastidio durante un comizio. Aveva ragione lui".
I politici sono permalosi?
"Moltissimo. Ma sanno che non possono evitarci. Ci sono poche uscite da Montecitorio e noi li aspettiamo lì. C'è perfino una proposta di legge di uno di An che vorrebbe inibirci l'accesso in piazza Montecitorio".
Chi sono quelli che se la prendono con voi?
"In passato Gasparri e Rutelli sono stati poco spiritosi. Bossi invece lo è stato moltissimo. Con Enrico Lucci, ad esempio, ha un rapporto perfino affettuoso".
Dicono tutti che Mediaset è piena di comunisti.
"Ci sono un sacco di persone di sinistra. Ma dire che è pieno è un'esagerazione. E comunque non c'è persecuzione. È lo share che dà la dimensione del tuo lavoro. Se vai due punti sotto la media di rete, sei un poveretto".
Ma Italia1 è di sinistra?
" Ha visto Lucignolo? In Italia1 convivono programmi molto buoni e programmi pessimi".
La tua vita.
"Sono nato 49 anni fa a Mantova. Figlio di insegnanti e cattivo scolaro".
Il primo lavoro?
"A18 anni insegnante di ginnastica. A 20 corrispondente per l'Unità. Mi pagavano una lira a pezzo".
Non ci diventavi ricco.
"Ho smesso di fare il giornalista quando mi sono inventato Gran Pavese varietà per le feste dell'Unità. A Bologna lo vide Minoli e ci fece delle pillole per Mixer. Così andai da Antonio Ricci con Patrizio Roversi e Siusy Blady a presentare Lupo Solitario. Antonio ce lo fece fare e da allora non ho mai smesso".
Lupo Solitario, Matrioska, Araba Fenice, Storie Vere. Se dovessi indicarmi le tre trasmissioni di cui vai più orgoglioso?
"Le Iene, Milano-Roma, Scherzi a Parte".
Politicamente...
"Sono di sinistra, ma divido il mondo in persone che non mi piacciono e persone che mi piacciono".
A destra chi ti piace?
"Fini, ma tutti gli altri del suo partito sono inguardabili. Poi anche Tremonti".
Ci andresti a cena insieme?
"Sì. È intelligente, ha un'ironia formidabile".
Con chi non andresti a cena, a sinistra?
"Con Salvi. Non capisco che ci stia a fare a sinistra. Mi sembra una persona inadeguata. E, se debbo dire la verità, nemmeno Fassino mi fa impazzire. Quand'era in seconda fila si muoveva bene. Adesso non mi piace niente di lui".
Per chi hai votato l'ultima volta?
"Voto sempre in maniera diversa. Una volta ho votato Occhetto. Mi faceva tenerezza, non lo votava nessuno, sembrava Calimero. Ho votato anche Ds e la Rosa nel pugno".
La critica più dura che hai ricevuto?
"Non è che mi interessino molto".
Ti interessano solo quelle positive?
"Noi facciamo una televisione responsabile. Perché qualcuno dovrebbe criticarci?".
Dicono che siete la foglia di fico di Berlusconi. Ogni volta che lo criticano lui si difende: "Ma come? Abbiamo le Iene!".
"E ogni volta la redazione ci resta male. D'altronde se Berlusconi non ci caccia vuol dire che gli conviene. I conti li sa fare. E noi facciamo la tv che ci piace. È evidente che ci sono i compromessi. Ma il programma che facciamo è lì per essere visto".
La televisione che ti piace?
"Ho il gusto dell'orrido".
Un esempio di orrido che ti piace?
"Le prime tre puntate della Pupa e il secchione. Poi ho avuto una repulsione".
I migliori autori televisivi?
"Non ce ne sono tanti. C'è soprattutto chi copia. La televisione è la riproposta continua dello stesso lesso ribollito. Invenzione ce n'è poca. Uno che inventa è Giovanni Benincasa".
La tua idea più redditizia?
"Il barzellettiere d'Italia. Giravo sempre con una telecamera. Chiunque incontrassi, gli chiedevo di raccontarmi una barzelletta. Montai 200 puntate per Italia1. Un milione a puntata. Mi liberai del problema della sopravvivenza".
Hai detto: "Vespa trasforma tutto in una marmellata".
"Era ignoranza. L'ho detto prima di fare Matrix".
Anche Matrix fa marmellata?
"Matrix è partito che doveva fare una cosa e fin dagli esordi ha scelto di farne un'altra. Se rivedi la prima puntata capisci cosa voleva essere. Poi Mentana, che è il comandante della nave ha preso un'altra rotta".
E tu che fai adesso a Matrix?
"Quasi niente. Aiuto la redazione a realizzare filmati".
Che programma avevate in mente?
"Era una specie di Letterman show. Enrico era in grado di farlo. Nella vita è molto simpatico. Fa un sacco di battute".
Quanto costano le Iene?
"Intorno ai 370 mila euro a puntata".
È poco o tanto?
"Prodotti come la Pupa e il secchione costano un milione. E contengono meno pubblicità delle Iene".
Hai detto: "Daniele Luttazzi è diventato un eroe, però in realtà se tornasse indietro non lo rifarebbe più".
"Luttazzi è un'intelligenza formidabile. Però ha una serie di difettucci, per esempio se tu gli copi una battuta, il giorno dopo fa l'inferno".
Chiunque lo farebbe.
"Tutti rubiamo tutto. Noi due abbiamo fatto insieme Barracuda rubando a Letterman".
Hai detto: "Pier Silvio Berlusconi è un uomo libero. Tant'è vero che non gli piace tutto di Mediaset".
"Deve diversificare il suo prodotto e nel suo negozio vende di tutto, anche le cose che non gli piacciono".
Cos'è che non gli piace?
"Non credo che gli piaccia Buona Domenica. Se dovesse scegliere lui il suo palinsesto, metterebbe Fiorello. Dentro Fiorello vede una ricchezza che probabilmengte non vede in Premiata Ditta".
Faresti Sanremo?
"No. Sono contento di fare le Iene. È il programma più bello checi sia. Non ci sono pastette. Da noi è tutto vero".
Anche Scherzi a parte?
"Su più di 100 scherzi che ho fatto io, solo tre erano finti. Uno con Sgarbi, uno con Cannavaro e uno con Boninsegna. E tutti avevano un mootivo per esserlo. Con Sgarbi perchè aveva avuto la scorta da poche ore. Con Cannavaro e Boninsegna perchè se ne sono accorti a gioco avviato. Lo abbiamo portato a termine trasformandoli in attori.
Hai detto: "La televisione è una cosa che si guarda mangiando una mela, stirando, facendo l'amore"...
"La gente non guarda la televisione. L'accende. E poi fa altre cose. Se vuoi che il tuo programma sia comprensibile devi porti il problema che i telespettatori non sono persone attente".
C'è qualche trucco?
"Nell'intervista doppia ne usiamo uno: togliamo le pause tra una parola e l'altra. Ci vogliono otto ore per montarala e ci sono più di 5 mila tagli. Alla fine però il risultato èun fantastico meccanismo di tipo ipnotico".
Guia Soncini ha scritto che sei un belloccio, di una bellezza da bagnino alfabetizzato.
"Io in quella definizione mi ci riconosco".
Gioco della torre. Moratti o Moggi?
"Moratti mi sta simpatico, è uno sfigato".
Serra o Benni?
"Serra quando ero piccolo era il mio mito. Poi l'ho conosciuto e mi è crollato. Una piccolezza. Era in redazione e rispose al telefono: “Ah ciao Francesco!”. E cominciò a parlare ad alta voce, per farci capire che era De Gregori".
Presta o Ballandi?
"Ballandi non va in giro armato".
Costanzo o Baudo?
""La Tv è una malattia e loro dopo 40 anni di Tv sono inguaribili. Chi va in onda subisce una mutazione come se fosse colpito da radiazioni. Ha tutto gratis, senza fatica: un posto al ristorante quando è pieno e l'affetto di tutti anche quando è scontroso. Dopo un po' di questa vita perdi il senso delle cose. Se a me interessa una ragazza, io devo pormi il problema di piacerle. Chi va in video no. Smette di fare quella ginnastica, il suo muscolo intellettuale è morto".


   31 dicembre 2006