prima pagina pagina precedente



La settimana in rete
a cura di Primo Casalini - 8 maggio 2005



Quando la politica è sorda
Ilvo Diamanti su
la Repubblica 8 maggio

È sicuramente ambiguo il significato del voto inglese. Da un lato, si tratta di un evento unico, nella storia inglese, per i laburisti: vincere le elezioni per tre volte di seguito. Dall´altro, però, si tratta di un risultato deludente. Per i laburisti e soprattutto per Blair. Visto che queste elezioni costituivano una sorta di referendum "personale", per il premier inglese. D´altra parte, Blair si è distinto, in questi anni, proprio perché, nello scenario europeo, ha interpretato, più e meglio degli altri, la figura del leader "inflessibile". Che difende le scelte in cui crede, come ha scritto Angelo Panebianco (ieri, sul Corriere della Sera), "anche a costo di sfidare l´opinione pubblica". In politica interna ed estera.
Da oggi, però, il "leader inflessibile" sarà costretto ad essere più flessibile. Se non fosse altro perché, per sfidare l´opinione pubblica, ci vogliono i numeri in Parlamento. E Blair non li ha più. Peraltro, difficilmente potrà continuare a interpretare la figura del premier unico e indiscusso. Visto che, in questa campagna elettorale, si è particolarmente rafforzata la posizione di Gordon Brown, più lab che lib. Il caso inglese è, peraltro, una lente utile per osservare il sistema politico italiano, in questa fase particolarmente instabile. Blair costituisce un riferimento largamente condiviso e rivendicato, in Italia, non solo nel centrosinistra, ma anche nel centrodestra. Blairiano è il leader della Margherita, Rutelli; blairiani si dicono i riformisti dei Ds; blairiano è l´orientamento assunto in politica estera, nei giorni scorsi, da Massimo D´Alema. Blairiano è il composito e trasversale club di politici, giornalisti, sindacalisti, imprenditori, intellettuali, che gravitano attorno al "Foglio" e al "Riformista". Blairiano è anche Silvio Berlusconi. A modo suo, ovviamente. Perché, per riprendere una battuta di Gianfranco Miglio (in risposta a chi gli chiedeva se fosse "bossi-ano"), lui, di certo, "non si sente l´ano di nessuno". Tuttavia, il "modello Berlusconi", in Italia, costituisce, per molti versi, un tentativo di riprodurre il "modello inglese". In condizioni politiche, legislative e istituzionali molto diverse. Tuttavia, Berlusconi si presenta – e si impone - come il leader unico di un partito unico. Il "Premier della Casa delle Libertà", non certo un capo-partito, indicato a presiedere il governo dagli altri partiti alleati. Peraltro, oltre alle risorse di potere che gli derivano dai media – e dalla sua capacità politica di "occupare" lo spazio lasciato vuoto dai partiti di governo della prima Repubblica -, egli "sfrutta" meglio – e prima - degli altri le opportunità offerte da un sistema elettorale, il maggioritario uninominale di collegio, simile a quello inglese. Che spinge tutti i partiti ad aggregarsi in modo bipolare, anche se la quota proporzionale, prevista in Italia, invece di semplificare l´offerta politica, mantiene e accentua il potere di ricatto di tutti i partiti. Soprattutto dei più piccoli. Peraltro, le principali linee di politica interna e internazionale del governo Berlusconi seguono una traccia analoga a quella di Blair. In particolare, nella lotta contro il terrorismo e nell´intervento in Iraq, Berlusconi si associa all´asse atlantico, che collega gli Usa alla Gran Bretagna. Bush e Blair. Così, in politica interna, il governo Berlusconi, come in Gran Bretagna, afferma la logica della flessibilità nelle politiche del lavoro e, in generale, un maggior peso dei privati nella scuola, nell´Università e nei servizi sociali. Tuttavia, a differenza di Blair, Berlusconi è molto più sensibile al vento dell´opinione pubblica. Lui, che del sondaggio ha fatto un arte: per "ascoltare" gli umori della società; ma anche per orientarli e condizionarli. Inoltre, anche se egli l´ha considerata un partito unico, la CdL è una coalizione di soggetti diversi, per interessi, valori e geografia. Per cui, Berlusconi, ha zigzagato, cercando di mettere d´accordo le mète dichiarate e l´opinione pubblica. Diversamente da Blair.
Blairiana, o meglio: inglese, non a caso, è la soluzione proposta da Berlusconi per contrastare la crisi di consensi che ha investito il suo partito e la sua stessa leadership, alle recenti elezioni regionali. Limitata alla dimensione organizzativa e normativa. Il partito unico. Che istituzionalizza la situazione che egli aveva, nei fatti, interpretato da sempre. Oggi, che non gli è più possibile agire da "sovrano assoluto", vorrebbe essere investito dei poteri del "premier inglese". Grazie alle innovazioni stabilite dal progetto di riforma costituzionale della CdL (che prevede, per il premier, l´investitura diretta degli elettori e maggiori competenze) e alla semplificazione della rappresentanza politica (attraverso l´unificazione dei partiti di centrodestra).
Il che appare, francamente, improbabile. Infatti, i partiti di centrodestra mai come oggi sono apparsi divisi e Berlusconi debole (e allora perché dovrebbero unificarsi, consegnandogli, proprio ora, le chiavi della Casa?).
Tuttavia, questa ipotesi, che riassume il problema in termini di "meccanica" politica e istituzionale, appare quanto meno riduttiva. Tanto più dopo il voto inglese. Nel quale Blair non ha conseguito un successo delle proporzioni sperate. Nonostante disponga dei poteri politici e istituzionali auspicati da Berlusconi. Nonostante il suo governo, a differenza di quello italiano, abbia favorito una crescita molto elevata dell´economia e dell´occupazione.
Questa lettura sottovaluta i mutamenti che, negli ultimi anni, hanno caratterizzato il sentimento e i comportamenti della società. In tutta Europa. Senza che la politica li abbia, adeguatamente, interpretati. In particolare, è cresciuta l´incertezza globale, alimentata dal terrorismo, ma anche dalla guerra contro il terrorismo. Ed è cresciuto il senso di vulnerabilità, presso ampi settori sociali. I ceti popolari, ma anche quella informe entità definita "ceti medi". I quali oggi si sentono sempre più "medio-bassi". L´occupazione, la sicurezza sociale, i servizi, la previdenza: sono divenuti temi prioritari, nella percezione dei cittadini. Così, in tutta Europa, nella Gran Bretagna affluente come nell´Italia stagnante, il pendolo degli orientamenti della società ha cambiato direzione. Dal privato si è spostato verso il pubblico. L´abbiamo scritto altre volte, ma vale la pena di ribadirlo. Assistiamo, ormai da anni, a una forte ripresa della domanda di Stato e di intervento pubblico. Che non accenna a fermarsi. Un´indagine nazionale, condotta dal Laboratorio di Studi politici e sociali dell´Università di Urbino (laPolis) nei giorni scorsi ha sondato le reazioni dei cittadini di fronte a una serie di parole. Nei confronti dello "Stato" i giudizi positivi superano del 57% quelli negativi: l´anno scorso la differenza era del 42%. Inoltre, nei confronti del "privato" i giudizi favorevoli superano del 30% quelli negativi; mentre nei confronti del "pubblico" il saldo favorevole risulta doppio: 60%. Peraltro, la quota di persone che si dice d´accordo nel ridurre l´intervento dello Stato a favore del privato è del 22% nella sanità, del 15% nell´istruzione (con una riduzione del 3% rispetto al 2004 in entrambi i casi).
La battuta d´arresto di Blair, ma soprattutto la crisi di Berlusconi, di conseguenza, non riflettono tanto un problema di leadership, che è possibile superare attraverso strategie "personali", mediali e/o istituzionali. Segnalano, in primo luogo, il divario fra i programmi politici e le domande dei cittadini. La distanza fra progetti e linguaggi che valorizzano il privato, il mercato, la flessibilità; e gli orientamenti sociali, che esprimono una nuova domanda di pubblico e di Stato; mentre, in ambito globale, diffidano dal ricorso preventivo e permanente alla guerra. D´altronde, proprio l´orientamento di Gordon Brown su questi argomenti, più lab che lib, ha contribuito a frenare il calo dei laburisti.
La politica. Non è solo un problema di candidati e di formule. Da propagandare attraverso i media. Oggi, in particolare. I tempi cambiano, insieme ai sentimenti e alle domande sociali. Guai a non riconoscerne i segni, per pigrizia intellettuale. O per paura di usare parole fuori moda. Il pubblico e lo Stato. Termini di un lessico politically incorrect. Sono tornati.


Senza compromessi
Michele Salvati sul
Corriere della Sera 8 maggio

Dall'arruolamento del premier britannico nel campo centrista operato da Rutelli a quello in campo socialdemocratico sostenuto da Fassino. Dall'entusiasmo senza riserve dei socialisti alle riserve senza entusiasmo di Rifondazione: meglio dei conservatori, ma non si tratta di socialismo e neppure di socialdemocrazia. Le reazioni dei partiti italiani nel confronti della terza vittoria consecutiva del Labour Party sono state immediate e continueranno ancora per poco, presto soffocate dalla full immersion nelle vicende nostrane. Prima che ciò avvenga, fissiamo tre punti che bisogna aver chiari.
1. La terza e storica vittoria del Labour premia un partito che non è più Labour , se non per continuità organizzativa. Non è più il partito che rappresenta la classe operaia e che sostiene una nazionalizzazione estesa delle industrie più importanti, quel " braccio politico " del sindacato che strappò ai liberali, all'inizio del secolo scorso, la palma del primo partito della sinistra inglese, dell'antagonista principale dei conservatori. Oggi il Labour è un partito liberale di sinistra. Naturalmente il premio della continuità organizzativa e i rapporti con la sinistra riformista europea, anch'essa organizzata prevalentemente in partiti socialdemocratici, non indurranno mai i laburisti a rinnegare la loro storia: il vino della terza via è stato tranquillamente versato nel vecchio otre del Labour , con la semplice aggiunta di un new , nuovo, davanti al nome. E perché si sarebbe dovuto fare diversamente? Anche nel nostro Paese, se al posto di comunisti e democristiani ci fosse stato un grande partito socialista, chi mai si sarebbe sognato di cambiar nome, di inventarsi Ulivi e Margherite, anche in presenza di un mutamento radicale di ideologia e di politiche?
2. Dunque un partito liberale, che si rivolge a individui e non a classi, ma è particolarmente attento a fornire a coloro che si trovano in condizioni di maggior bisogno gli strumenti e le risorse per competere in un'economia di mercato.
Sta in questa " particolare attenzione " — che ora non ho modo di illustrare — il carattere di sinistra del liberalismo del Labour Party ( Le posizioni adottate da Blair sulla guerra e sull'Europa, all'origine dei due " nonostante " di Romano Prodi, non hanno molto a che fare con le categorie di destra e sinistra, che riguardano soprattutto le politiche economico sociali).
Certamente il Labour si è spostato verso il centro della società e dello spettro politico del Regno Unito, strappandolo ai conservatori. Ma non è un partito " centrista " , che sta in mezzo, nel significato italiano del termine. E, soprattutto, non è un partito che si coalizza con altri per vincere, inventando qualche bizzarro nome floreale per designare la coalizione: esso compete duramente per rappresentare lo spazio tra il centro e la sinistra con i Liberal Democratici, i LibDem, come all'inizio del secolo scorso aveva combattuto contro i liberali. Unendosi, due partiti potrebbero dare cappotto ai conservatori: perché il Labour non si unisce ai LibDem? chiederebbe un italiano.
3. Perché si tratta di un vero partito, e non aspira a una coalizione indebolita agli occhi degli elettori da continui compromessi e mediazioni tra oligarchie indipendenti.
È un partito dove si svolgono dure lotte democratiche su linee politiche distinte. E la lotta che ha condotto, intorno alla metà degli anni ' 90, un piccolo gruppo di giovani innovatori ( tra cui Gordon Brown e Tony Blair) a prendere in mano un partito allo sbando dopo quattro vittorie consecutive dei conservatori è stata particolarmente ruthless , spietata. Se sommiamo alla " macchina partito " , strumento conquistato dal segretario premier, la " macchina Westminster " , gli straordinari poteri di cui gode il primo ministro inglese, ci si può facilmente rendere conto della radicale differenza che separa un premier inglese da qualsiasi primo ministro italiano, anche da un Berlusconi, come di recente questi ha appreso. Con poteri così forti il premier può impostare una politica coerente e, se è convinto di essere nel giusto, anche una politica impopolare. Ne pagherà il prezzo nelle successive elezioni, se così dovrà avvenire, ma intanto la può condurre in porto.
Ci sono tante altre differenze che rendono un confronto difficile. Ma queste bastano per indurre un po' di cautela nei più affrettati e interessati commentatori della storica vittoria laburista.


Partito unico e ritorno dei riti Dc
Augusto Minzolini su
La Stampa 5 maggio

A sentire i discorsi nel centro-destra sul tema del partito unico, sembra di essere tornati alla liturgia dei vecchi congressi: si comincia a discutere di partito unico e ci si aggiunge un corollario, il problema della leadership; poi, alla fine, la forma e la sostanza della coalizione non cambieranno, o cambieranno poco, mentre all'ordine del giorno rimarrà il tema del nuovo candidato per Palazzo Chigi. Nell'interpretazione degli ex-democristiani del centro-destra lo scopo di tante parole spese sul partito unico è uno solo: sostituire la candidatura di Silvio Berlusconi per la premiership del 2006, sapendo che, tra i possibili successori, Pierferdinando Casini è uno dei più forti. La sceneggiatura, le procedure, i conseguenti minuetti, per raggiungere l'obiettivo sono mutuati direttamente dalla storia dello scudocrociato: il Cavaliere, ad esempio, vuole prima costruire il partito unico e, solo in un secondo momento, è disponibile a confrontarsi sulla leadership; gli ex-Dc, invece, pretendono un percorso diverso e cioè si può anche parlare di partito unico ma deve essere certificato che alla fine del percorso potrà uscire un altro candidato per Palazzo Chigi.

Ma le analogie non finiscono qui. Anche la regia in certi eventi conta, e gli ex-democristiani sognano un'incoronazione come quelle di un tempo: deve essere lo stesso Berlusconi che prima di entrare nel paradiso dei grandi del passato, nel museo delle cere, deve incoronare il suo successore. Successore che come vuole la tradizione Dc dovrà emergere a poco a poco, stipulando le alleanze indispensabili per raggiungere il soglio pontificio, appunto come nei conclavi; o chiamando a raccolta tutti gli ex-Dc che militano negli altri partiti della coalizione, da An alla stessa Forza Italia.

Ora, si può dire quel che si vuole, ma uno scenario in cui si consumano questi rituali e in cui il Cavaliere è costretto a trattare e mediare su ogni proposta, segna già la fine del modo di essere berlusconiano: dal punto di vista del Cavaliere porre sul tavolo l'argomento del partito unico, per poi dissertare sulla successione non è, infatti, una gran cosa. E l'epilogo potrebbe anche essere peggiore. Se vuole davvero un partito unico - o una federazione - forse il premier dovrebbe prendere esempio dall'ex-democristiano Romano Prodi, che paradossalmente ha copiato lo stile e l'intraprendenza del berlusconismo di un tempo. Il Professore per federare l'Ulivo, infatti, non chiese permessi a nessuno e non si ritirò di fronte alle prime difficoltà. Ma, soprattutto, fece propria un'espressione classica delle primarie americane di cui dovrebbe essere consapevole chiunque si cimenti in simili avventure: "Scorrerà del sangue". C'è chi ancora lo ricorda.


Il Cavaliere e la disfida tv
Claudio Rinaldi su
la Repubblica 5 maggio

Silvio Berlusconi è furbo, si sa, ma è anche uno che fa il furbo. Uno che ci prova. Alla vigilia delle elezioni del 2001 si era rifiutato, sprezzante, di misurarsi con Francesco Rutelli in un duello televisivo; sabato 30 aprile, invece, ha detto di sì a un faccia a faccia con Romano Prodi nel 2006. "Sono assolutamente a disposizione", ha giurato. Una svolta davvero "epocale", per usare il suo linguaggio, e annunciata con una recita da attore consumato. Ma sbaglierebbe chi pensasse che finalmente l´Unto dal Signore si è rassegnato ai normali confronti con i comuni mortali. Non è così.
Il suo è un semplice, cinico calcolo, lo stesso che il 5 aprile lo ha spinto ad avventurarsi sul terreno infido di "Ballarò" dove con Massimo D´Alema lo aspettava proprio Rutelli. Quattro anni fa i sondaggi gli assegnavano una vittoria certa, perciò non gli conveniva accettare una sfida nella quale aveva soltanto da perdere: il suo avversario, più giovane e telegenico, azzeccando due o tre battute avrebbe potuto tentare un sorpasso in extremis. Adesso, dopo la débâcle nelle regionali, è il centrodestra ad apparire spacciato, ragion per cui agli occhi di Berlusconi una diretta tv con Prodi non rappresenta più una potenziale trappola bensì l´ultima disperata carta da giocare. Tanto più che notoriamente il capo dell´Unione non è di quei parlatori disinvolti e incisivi che riescono a bucare il video.
Troppo comodo, viene spontaneo obiettare. Sì, troppo. In una materia tanto delicata, il rapporto con l´opinione pubblica, un uomo politico che si rispetti non può cambiare idea e condotta a seconda delle diverse prospettive di tornaconto personale che gli si aprono. Nel negarsi a Rutelli, oltretutto, Berlusconi adduceva spiegazioni particolarmente pretestuose: a volte sosteneva che l´ex sindaco di Roma era "la maschera dei comunisti", non un vero leader come lui; altre volte asseriva di temere che l´ipotizzato dibattito degenerasse in una rissa da osteria. Mezzucci di bassa lega. Perché mai Prodi ora dovrebbe assecondare l´inedita richiesta di un così sfacciato opportunista?
In politica, è vero, l´astuzia è in un certo senso un dovere professionale, mentre la coerenza è un optional. Questo però significa una sola cosa: che anche Prodi, se e quando Berlusconi tornerà alla carica con la proposta del duello davanti alle telecamere, farà bene a rispondere unicamente sulla base di una serena analisi della situazione del momento, senza dare ascolto a quanti si preparano a invocare strumentali questioni di principio. Se fra un anno fosse sicurissimo di vincere le elezioni, Prodi dovrebbe lasciar cadere nel vuoto gli inviti berlusconiani. Se al contrario ritenesse la partita ancora aperta, in tal caso potrebbe (forse) prestarsi al faccia a faccia; facendo gli scongiuri, beninteso, e magari dopo essersi sottoposto a un corso accelerato di dizione.
La storia europea degli ultimi decenni insegna che i confronti in tv, per quanto graditi ai cittadini, non costituiscono affatto quell´obbligo politico e morale assoluto di cui alcuni favoleggiano. In Germania sono una prassi costante, più o meno come negli Stati Uniti dal 1960 in poi, ma in Spagna no. In Francia tutto dipende dalle circostanze: nel 1997 Jacques Chirac acconsentì a incrociare i ferri con Lionel Jospin, ma nel 2002 ha sbattuto la porta in faccia a Jean-Marie Le Pen. In Gran Bretagna fu la conservatrice Margaret Thatcher a opporsi, nel 1979, al duello che reclamava il laburista James Callaghan. Lo fece con la consueta spietata lucidità: per non offrire all´avversario una possibile chance di rimonta, come si legge nella sua autobiografia. E a Londra un duello in tv non c´è stato nemmeno stavolta, perché a fine aprile Tony Blair e gli sfidanti Michael Howard e Charles Kennedy si sono limitati a partecipare a una trasmissione in cui potevano parlare tutti e tre per 20 minuti ma separatamente. Se Prodi dicesse di no a Berlusconi, insomma, non ci sarebbe nulla di strano né di scandaloso.
Qualcuno potrebbe osservare che chi si sottrae a un confronto confessa per ciò stesso di sentirsi debole, di nutrire scarsa fiducia in sé, e dunque commette un autogol. Ma questa posizione non è convincente, sembra ispirarsi a un arditismo romanticheggiante che non tiene conto fino in fondo della realtà. E la realtà, piaccia o no, è che il duello in tv logora chi lo implora di continuo senza ottenerlo.
Nel novembre del 1997 Giuliano Ferrara, che era in lizza con Antonio Di Pietro nel Mugello per un posto di senatore, si estenuò per settimane nella ricerca del mitico faccia a faccia, ma alla lunga l´insistenza conferì alla sua campagna un tono sgradevolmente piagnucoloso; il candidato della destra, uomo di solito brillante, si trasformò in un noioso postulante che in quanto tale venne bocciato dagli elettori con una severità mai vista.
Nella primavera del 2001 anche Rutelli fu martellante nel sollecitare un dibattito in tv, specificando che intendeva porre allo sfuggente avversario "tre domande"; ma questa tattica non accese nel pubblico alcun fremito di curiosità, né poté impedire che nelle urne l´Ulivo venisse duramente battuto. Se nel 2006 Prodi avrà il coltello dalla parte del manico, come oggi è presumibile, potrà trattare Berlusconi nel modo in cui Di Pietro trattò Ferrara, cioè con asciutta indifferenza. Per il professore bolognese sarebbe un´operazione a rischio zero. Lui acquisirebbe il profilo vincente di una forza tranquilla, l´altro rimarrebbe malinconicamente a cuocere nel brodo delle sue richieste non accolte.


Il masochismo dei 3 B
Editoriale su
Il Foglio 5 maggio

L'aria dei tempi. L'icona del leader che porta sulle spalle il peso del mondo, la responsabilità delle scelte, il “path of action”, si va offuscando. Meccanismo elementare: chi si espone, agisce e comanda, presenta il petto alle baionette nemiche. E' un bersaglio grosso e ogni suo errore vale doppio. I tre signor B d'inizio millennio adesso fanno i conti con l'inevitabile logoramento d'immagine. Eppure, prese le debite contromisure, gli sviluppi sono tutt'altro che scontati. Si prenda B1, Tony Blair, cui dedica una deliziosa articolessa David Remnick sul New Yorker, col titolo “La campagna del masochismo”: “Osservare la campagna di Blair per il terzo mandato equivale ad assistere a un politico che mette se stesso in balia di qualsiasi platea, qualsiasi telecamera, chiunque se la voglia prendere con lui”. Segue lo sbalorditivo resoconto delle umiliazioni cui un Blair autopunitivo e penitenziale si sottopone per riguadagnare le simpatie popolari smarrite e per risarcire l'elettorato delle delusioni che sa d'aver provocato. “La campagna del masochismo consiste nel farsi mettere alle corde e nel lasciarsi picchiare fin quando lo stesso avversario si ritrovi spossato”. A forza di vedersi offrire il volontario sacrificio del leader, pronto a esporsi a critiche, rinfacci, quando non al ludibrio, la rabbia dell'elettorato si scarica, il personaggio riacquista decenza, i debiti paiono pagati. E il posto (forse) è ancora suo.
Per B2, Bush-seconda tornata, l'effetto Casetta Bianca nella Prateria sta funzionando a meraviglia. E' un progetto sofisticato, astuto, perfino divertente. Una trasformazione di Bush praticamente da fermo. Riguadagnandogli simpatie senza modificarlo, stranirlo, senza nip'n'tuck o paradossali finzioni. Al contrario, giocando a carte scoperte. La mossa “Laura” appena inscenata è stato il tocco magistrale, roba da applausi alla protagonista. Volete davvero sapere com'è la vita degli amministratori di condominio del pianeta? Vi servo io. A letto alle 9, per consorte un sarcofago russante, attenzioni-zero, e l'unica cosa che lo fa felice è andarsene in giro per il ranch con gli amici e una flottiglia di seghe elettriche. Gli americani delle flatlands devono aver gonfiato il petto, facendo l'occhietto alle loro signore: tu sì che sei fortunata con un ragazzone da barbecue come me. E avranno detto grazie a George W, te ne devo una. Ma i coreografi dello Studio Ovale non si saziano: il loro Bush adesso ha smesso di provare a fare il politico raffinato, fa se stesso che è assai meglio.
Si sfotte da solo, gioca al suo doppio, disarma chi lo canzonava per la parlata o per le movenze da trapanatore di pozzi. Ha vinto ciò che c'era da vincere e ora gioca con magnifico tempismo il tris d'assi: già, li chiamano proprio così, ora che vanno in giro come inseparabili compari. Sono i Tre Amigos: Bush 41, Clinton e il presidente in carica. Le loro sortite collettive sono state uno spasso e i giornalisti ci cascano perché la tentazione è troppo eccitante, miele per le mosche. “Ho piacere che partecipino ad alcuni briefing strategici. Così, per sentire il loro punto di vista” dice col tono casual George W., riferendosi al padre e quello che fu il più acerrimo nemico di famiglia. Adesso è tutto un minuetto di pacche sulle spalle e di “stasera pago io”. Gli americani trasecolano: accidenti come vanno d'accordo. Allora non è vero che poi sono così differenti. Se pure Clinton si fida di lui, probabile che Bush sia davvero un buon diavolo. Bingo.
Chiamiamolo trend. Con una modesta premessa: a conti fatti, il peso principale che i tre mister B oggi sopportano è costituito proprio dalla loro serrata alleanza, dalla loro inscindibile connessione. Non si perdona loro l'amicizia, arrivata a sembianze di vero mutuo soccorso. Ne discende che ai tre boss stazzonati, a questo punto, convenga davvero fare fronte comune, scambiarsi i meccanismi mediatici. E in questo senso l'idea del capo dal volto umano, appare quella giusta. Il suggerimento che prima di cambiare la macchina vecchia, tenace e affidabile con una nuova, che promette sconquassi ma nasconde misteri, può funzionare. La gente propende per ciò che conosce, se le cicatrici non bruciano troppo. Esporre la propria fragile normalità, ciò che ci rende tutti uguali, i difetti che è assurdo negare, paga. Bush su questa strategia sta ricamando un capolavoro della comunicazione, sta mettendo a fuoco la propria storicizzazione, trova consensi nuovi. Blair espiando rinasce, rigenera il virginale entusiasmo che salutò il suo avvento, s'avvia al trionfo tra le ammaccature. Lui, agli esordi guardato con superiorità per il suo charme da mall suburbano, ora rasenta la dimensione elisabettiana di chi s'è umiliato per vincere, stoops to conquer, come sancito da Olivier Goldsmith. E il B3 nostrano? Ci prova, ma non si sa se ce la fa e soprattutto se riesce a farselo andare. La sortita a Ballarò è stato un successone, la migliore promozione. Tutto gratis, solo con le risorse del Berlusconi originale e un po' d'improvvisazione. Ma riprovarci suonerebbe falso, ripetere stancherebbe. Eppure che la strada sia quella, più dei proclami apocalittici, è certo. Archiviando le promesse, sorvolando sulle Grandi Opere, osando laddove neppure le aquile: ehi, sono il Cavaliere della Porta Accanto. Proprio sicuro di non comprare la bicicletta usata da me?


I riformisti alla caccia del timone
Andrea Fabozzi su
il Manifesto 4 maggio

Il presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio dei ministri e il presidente della camera dei deputati sono seduti uno accanto all'altro dietro lo stesso tavolo. Il giornalista che deve moderare il dibattito è in ritardo, allora le domande comincia a farle il presidente della camera. Così, per scherzare. Del resto Massimo D'Alema non è il presidente della camera come Giuliano Amato non è il presidente della Repubblica e Romano Prodi non è ancora il primo ministro. Ma per un giorno intero in un cinema romano fanno le prove generali, declinando le ragioni del riformismo in tutti i campi dello scibile umano o perlomeno politico. Politica estera, economia, stato sociale, riforme istituzionali: faremo così, se ce lo faranno fare. Benvenuti al riformismo pride, la giornata dell'orgoglio riformista. Organizza la fondazione Italianieuropei di D'Alema e Amato nella multisala di Cecchi Gori, che alla fondazione affitta già qualche stanza negli stucchi di palazzo Borghese. La giornata in cui D'Alema può "serenamente" riconoscere qualche ragione ai neocon americani: "Hanno capito che la sicurezza sta nell'espansione della democrazia". E di più: "E' impensabile che oggi di fronte al disordine mondiale si possa escludere a priori l'uso della forza". Impensabile. Piero Fassino, non il primo fan della lobby dalemiana, è escluso dalla tavola rotonda e interviene nel pomeriggio. Deve precisare: "Sono stato io a introdurre il tema dell'espansione della democrazia e sono stato criticato, ma la vittoria alle regionali mi ha dato ragione". Persino Amato deve smarcarsi: "All'uso delle armi dico no". Il dottor sottile preferisce il soft power.

Si usa molto l'inglese, siamo nel think thank del riformismo, fucina di idee, di consigli e di consigli di amministrazione. Si diffondono discussioni complesse: "Il dilemma tra progetto e programma è un falso problema". Molti blazer blu, eleganza sobria, giovani leoni e meno giovani secchioni. Enrico Letta parla venti minuti di petrolio, gas e altre risorse energetiche (anche, e non per dirne male, delle centrali nucleari). Si interviene a bassa voce, Enrico Boselli quasi non si sente. Si applaude sommessamente e con sussiego, D'Alema in questo è il migliore. Understatement sin dal titolo: Contributo per un programma riformista. Niente di più. Anche se, dopo nove ore di lavoro, più che un contributo viene fuori un'intenzione. Un'intenzione orgogliosa, come la giornata impone: "Agli elettori dobbiamo dare il senso di una direzione riformista. Abbiamo una coalizione larga, ma il nucleo di guida riformista ha una sua omogeneità maggiore ed è il punto di riferimento", dice Prodi. "All'alleanza dobbiamo dare un asse, una formazione che può raccogliere più di un terzo dei voti che darebbe forza al governo e stabilità alla coalizione", dice D'Alema. Eccolo qui il timone riformista, ma più giusto sarebbe chiamarlo manubrio visto che non sarà il velista D'Alema ma il ciclista Prodi a doverlo impugnare.

Per carità, il professore non vuole far arrabbiare nessuno dei suoi alleati ("lo dico sempre, non litigate") e quindi chiarisce: "Non ho mai parlato di partito unico. Il partito unico lo vogliono fare dall'altra parte e se lo faranno benissimo, ma Berlusconi lo impone dall'alto, assomiglia a quelli che vogliono esportare la democrazia". Paragone da non fare con D'Alema, è chiaro. Ma Prodi sull'Iraq è molto meno riformista: "La guerra è stata un grande errore storico e io non voglio correggere niente della mia posizione. Poi so bene che l'accordo tra le due sponde dell'Atlantico è essenziale per la pace continuo a cercare un accordo tra Europa e Stati Uniti". E anche sullo stato sociale il professore mette un punto fermo: "Difendo quella che è stata la più grande conquista del ventesimo secolo. E' chiaro che dobbiamo aggiornare le risposte, affrontare gli argomenti del sistema sanitario, delle pensioni, della mobilità, ma perbacco sulla proposta di spostare le energie del paese verso la non protezione dei diritti fondamentali dei cittadini il centrosinistra non potrà mai cedere, perché allora non vedo che cosa siamo venuti a fare qui". Perbacco.

Si svicola, ma il problema di cosa diventerà da grande il listone ulivista torna nella discussione, nonostante la "moratoria" chiesta da Rutelli. Prodi e D'Alema in questo sono dalla stessa parte. "Della moratoria ho appreso dai giornali, sono disciplinato - dice D'Alema - ma bisogna andare avanti". "Abbiamo fatto l'Ulivo al quale abbiamo affidato la competenza in politica estera, politica europea e riforme istituzionali, su questo non c'è nessuna moratoria", aggiunge Prodi. E Fassino, che poveraccio mentre cerca di far capire a tutti quanto è grave il momento che sta passando il nostro paese è interrotto dal cellulare che gli suona nella tasca, avverte: "Dobbiamo fare un salto negli assetti politici, ma la soluzione non passa per la scorciatoia di modifiche istituzionali". Per chiarirci, guardando D'Alema che è distratto: "Anche noi abbiamo fatto errori, come la bicamerale".

Ma i riformisti alle riforme devono pur pensare e hanno proposte anche per cambiare la costituzione, sempre nel caso di vittoria si capisce. Per D'Alema la Carta non è intoccabile, nella seconda parte, e anche le leggi elettorali andranno cambiate "perché da una parte invitano i partiti a unirsi e dall'altra a dividersi". Per Amato bisognerà pensare a un bicameralismo più efficiente e mettere al riparo dallo scontro politico le istituzioni di garanzia. Tenendo presente l'avvertimento di Rutelli: "Avevamo proposte buone anche nel 2001, migliori sicuramente di quelle del centrodestra. Ma le abbiamo presentate male, abbiamo sbagliato in campagna elettorale". Ricordate chi era il candidato?


L'amaca di Michele Serra
su
la Repubblica

3 maggio
Mi è capitato di seguire due orette del varietà domenicale condotto da Simona Ventura. Ero bendisposto, direi quasi indifeso, ma non sarei in grado di esprimere neanche mezzo giudizio per il semplice fatto che non ci ho capito niente. Mi mancavano gli elementi indispensabili per poter seguire la trasmissione: e cioè chi fossero Papo, Lillo, la Mazzolini, Baccioni, Filumena (uso nomi di fantasia perché mi sfuggono quelli veri), personaggi dei reality-show e del sottobosco televisivo sui quali verteva gran parte di quanto diceva la Ventura. Banalmente, ero tagliato fuori, perché lo spettacolo non era destinato al pubblico di quella trasmissione, cioè a me, ma al pubblico di altre trasmissioni (i reality), come se il palinsesto fosse un rosario da snocciolare senza mai assentarsi, pena l´esclusione. Non che sentirmi escluso mi mortifichi davvero, ma insomma: se la televisione parla solo della televisione, come se ogni studio confinasse con l´altro e gli stessissimi personaggi entrassero e uscissero a catena da ogni inquadratura e da ogni discorso, noi che viviamo nel mondo normale, che dobbiamo fare? Seguire la tv con un traduttore simultaneo, che ci spieghi tutto su Papo, Lillo, la Mazzolini, Baccioni e Filumena, oppure concludere che la nostra presenza non è più richiesta? E se, come capita, perfino i tg, per solidarietà di rete, ogni tanto fanno un servizio su Baccioni innamorato o Filumena gelosa, il mio "e chi se ne frega" a quale sportello devo indirizzarlo, per non disturbare personalmente i direttori, che hanno già tanto da fare?

4 maggio
Pare che Juventus e Milan siano nervose e sospettino vicendevoli manovre per vincere lo scudetto fuori dal campo. Da interista frustrato lo spettacolo mi diverte abbastanza, per la serie "chi si accontenta gode". Da cittadino e da amatore dello sport, penso invece che il malanimo a volte isterico che trasuda dal calcio italiano sia la logica, inevitabile conseguenza della famosa "mentalità vincente", che dietro l´animoso concetto nasconde un´ideologia compulsiva e, in definitiva, antisportiva.
Antisportiva perché trascura di considerare non solo il fair play e il famoso "saper perdere", ma anche l´aritmetica, che nello sport è la vera padrona: se lo scudetto è uno, e le squadre in lizza sono venti, va da sé che diciannove non lo vinceranno. Ne dovrebbe conseguire una serena considerazione della sconfitta, senza la quale, tra l´altro, non avrebbe luogo vittoria. Non è così, nel calcio italiano la sconfitta scatena frustrazione e ira funesta, non è tra le ipotesi contemplate, non fa parte del gioco: ed è perlomeno significativo che siano proprio le due società più forti, ma anche le più potenti politicamente, a fare le spese del clima di forsennata competitività agonistica, sportiva e ahimé pure farmaceutica che avvelena il calcio. Ci fosse, invece della mentalità vincente, la mentalità giocante, le cose andrebbero meglio per tutti.

5 maggio
Il gossip riesce a essere volgare e moralista al tempo stesso: è dunque l´ideologia perfetta per l´Italietta televisiva. L´ultima bordata colpisce e affonda il famoso calciatore e la sua promessa sposa, parla e sparla di talami e di amplessi, e solo pensare alla difesa della privacy fa ridere, visto che la tv pubblica (Rai1) è in prima linea nel gioco delle pattumiere scoperchiate.
E come sempre, dietro la colata del pettegolezzo, la vera sorgente è lo sguardo bigotto che vede ovunque lo scandalo perché ovunque lo cerca: si è sentito parlare in tv, ieri pomeriggio, di "mogli rubate" e di ragazze "rubamariti", secondo il piccolo eterno codice di un´etica familiare che assomiglia piuttosto a un´etica da mercato del bestiame, che apparenta l´adulterio all´abigeato, sono le vacche e i manzi che si "rubano", non le persone. E mentre si finge preoccupazione, signora mia pensi che roba, ci si dà di gomito e si parla sogghignando di "corna" e di "cornuti", come un popolino feroce e meschino, eccitato dallo scandalo, e comunque abituato a classificare come scandaloso, negli altri, ciò che ovviamente fa anche lui ma non desidera sia detto, come le comari di "Bocca di rosa". Che ormai governano, culturalmente parlando, anche i più illustri e protetti tra i palinsesti.


Tre Buongiorno
Massimo Gramellini su
La Stampa

Vota Hugh l'antiamericano 3 maggio 2005
In uno dei tanti sondaggi con cui i giornali cercano vanamente di appassionare gli inglesi alle elezioni del 5 maggio, il premier più gradito risulta essere l'attore Hugh Grant, che ha interpretato la parte nella commedia "Love Actually". La notizia è frivola solo in apparenza. In realtà contiene due indicazioni piuttosto serie. La prima è che nella culla del sistema maggioritario nessun programma politico riesce a distinguersi dagli altri e tutti finiscono per essere inghiottiti in un gigantesco sdadiglio: vinca il laburista Blair o il conservatore Howard, ogni inglese sa che nella sua vita cambierà ben poco. Un anticipo di quel che succederà da noi fra qualche anno, quando il duello sarà Veltroni-Casini e nei sondaggi gli italiani voteranno compatti per Raoul Bova.

La seconda indicazione riguarda il premier che Grant incarnava nel film. Affascinante, certo. Ma soprattutto capace di tener testa all'invadenza del Presidente americano - un dongiovanni tarato sulle fregole inconcludenti di Clinton più che sulle tisane di Bush - rivendicando con orgoglio la grandezza britannica. Se ne deduce che più ancora della guerra, gli inglesi mal sopportano che il loro premier (di qualunque partito sia) da almeno trent'anni si pieghi costantemente al volere dell'ex colonia diventata impero. Uno stato d'animo che li avvicina alle opinioni pubbliche dell'Europa continentale e fa a pugni con la visione di una Angloamerica compatta da una sponda all'altra dell'Atlantico.


Da Trieste in giù 4 maggio 2005
Se gli ultras della Juve espongono uno striscione contro il 25 aprile, la multa è di ventimila euro. Ma se quello striscione lo sventolano i tifosi della Triestina, la pena scende a cinquemila. Infatti, spiega il giudice sportivo, a Trieste il 25 aprile sta meno simpatico che altrove, per via di quel che vi combinarono i partigiani di Tito nei giorni immediatamente successivi. Dunque, se chi insulta la Resistenza a Torino è un mascalzone, chi la insulta in Venezia Giulia lo è egualmente, però un po' meno. Gli vanno riconosciute le attenuanti generiche della Storia.

E' la prima volta che si applicano i distinguo del revisionismo ai dibattiti intellettuali fra curve, col rischio di attribuire in futuro una patente involontaria di autorevolezza alle bravate di quattro fascistelli da bar. Ma ammettiamo pure che in uno striscione degli ultras si riconosca lo stato d'animo di una comunità intera. Qual è il limite di spazio e di tempo oltre il quale non si tollerano eccezioni alla regola? Se gli avvocati riuscissero a dimostrare che uno dei tifosi della Juve aveva il nonno triestino, le attenuanti dovrebbero valere anche per lui? Da qualunque parte la si guardi, questa vicenda rafforza l'allergia dei liberali per i reati di opinione e, in genere, per i tentativi di sanzionare i comportamenti che offendono la sensibilità altrui. Non perché sia sempre sbagliato punirli. Ma perché spesso è inutile e fonte di nuove ingiustizie, da Trieste in giù.


Il vero psicologo 5 maggio 2005
Non per banalizzare il dibattito sui motivi che indussero a considerare guarito il Mostro del Circeo, ma dalla lettura delle relazioni emerge un particolare psicologico sottovalutato e forse decisivo. Purtroppo non riguarda il bis-assassino, ma gli specialisti che lo avevano in osservazione e che Izzo ha saputo "lisciare" con la maestria di un portaborse Rai. E' un metodo molto diffuso anche fra i sani di mente e consiste nell'incensare il detentore di un potere, sia un vigile o il capufficio, vellicandone il narcisismo. Qualche timido e parecchi illusi sostengono che non possa funzionare: l'oggetto di simili attenzioni non si lascerà circuire, anzi ne sarà infastidito. Ma quando mai: funziona, funziona sempre.

Izzo, che sarà pure matto ma non è stupido, ha adottato questa tecnica con lo psicologo di Campobasso che doveva decidere il suo destino. Dopo essersi fatto spiegare dall'esperto che tipo di pazzo era lui, si è calorosamente felicitato: "Ha proprio ragione, dottore, nessuno in tanti anni mi aveva capito bene come lei!". Non ci crederete, ma da quel momento le relazioni dello psicologo hanno cominciato a sottolineare la straordinaria ricettività del paziente e i suoi progressi faticosi ma autentici, da collegare ovviamente al rapporto di particolare fiducia che si era creato fra loro. Izzo ha fatto sentire lo psicologo un genio e l'altro lo ha ricompensato fornendogli il passaporto per la libertà. Dal che si deduce chi dei due era il genio, o almeno lo psicologo.


L'altra faccia dell'America
Sergio Romano sul
Corriere della Sera 5 maggio

Furio Colombo, autore di America e libertà, da Alexis de Tocqueville a George W. Bush ( Baldini Castoldi Dalai, pp. 116, e13) conosce bene la materia del suo ultimo libro. Ha vissuto lungamente negli Stati Uniti, ha insegnato alla Columbia University, ha diretto l'Istituto italiano di cultura a New York, ha presieduto la filiale americana della Fiat, ha inviato corrispondenze alla Stampa e a Repubblica , ha scritto libri su alcuni fenomeni della società americana.
Leggendolo o vedendo le sue apparizioni televisive, ho avuto spesso l'impressione che Colombo pensasse a se stesso come a un intermediario fra il suo Paese, di cui fu un ambasciatore culturale, e quello in cui aveva scelto di vivere. Il ruolo richiedeva una forte affinità con i due mondi e, per certi aspetti, una doppia lealtà. Se la parola non avesse assunto un senso più circoscritto, direi che Furio Colombo è stato per molti anni un perfetto italo americano, uno dei pochi che potesse contemporaneamente rendere l'America simpatica agli italiani e l'Italia comprensibile per gli americani.
Ma Colombo, in questi ultimi anni, è stato spinto dalle circostanze a recitare una parte diversa. È rientrato in Italia, è stato parlamentare del centrosinistra e ha diretto fino a poco tempo fa l'Unità , vale dire, come si legge sotto la testata, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Mi sono chiesto più volte, soprattutto dopo lo scoppio della guerra irachena, come sarebbe riuscito a conciliare questo nuovo ruolo con le sue simpatie per gli Stati Uniti. La risposta è in questo breve libro.
Colombo non ha scritto un saggio, ma una sorta di autogiustificazione o " apologia pro vita mea " ; e lo ha fatto, approfittando di alcune lezioni magistrali all'Università di Bologna, nello stile di un " principe del foro " .
Il principale argomento della sua arringa è quello che ricorre inevitabilmente in quasi tutti i matrimoni andati a male. Non sono io, lascia intendere Colombo, il partner che è cambiato: è cambiata l'America. Per meglio dimostrare la sua tesi l'autore rievoca la grande genealogia dei presidenti democratici e riformatori: Roosevelt, leader della crociata contro il nazifascismo, Kennedy, l'uomo che sconfisse l'apartheid e liberò i neri dalla segregazione, Carter, il mite uomo politico della Georgia che restituì il canale di Panama ai panamensi, e infine Clinton, che Colombo descrive come una specie di anti Berlusconi.
Dall'altra parte vi sono i neoconservatori e i neocristiani del movimento evangelico, Bush e Cheney, gli avversari dell'Onu, i creazioni sti, gli antiabortisti, i cultori della violenza razziale e dell'intolleranza religiosa. Colombo ricorda alcune pagine meno edificanti della storia americana degli ultimi cinquant'anni ( la caccia alle streghe del senatore McCarthy, ad esempio), ma il bilancio, sino all'avvento di George W. Bush, è positivo. Il libro è un elogio della democrazia americana, ma anche un'appassionata rivendicazione della coerenza dell'autore.
La realtà, naturalmente, è più complicata. Colombo conosce troppo bene gli Stati Uniti per ignorare che l'imperialismo, il sentimento della propria superiorità, l'intolleranza e i revival religiosi sono fenomeni ricorrenti della società americana e che essi hanno spesso convissuto con luminosi esempi di democrazia e generosità internazionale. Non esiste soltanto Franklin Delano Roosevelt, leader del mondo libero durante la seconda guerra mondiale. Esiste anche Theodore Roosevelt, colonnello durante la guerra ispano americana e fautore della politica del " big stick " , del grosso bastone. Non esiste soltanto il Kennedy che comprese le aspirazioni dei neri e resistette alle pressioni b e l l i c o s e dei suoi generali durante la crisi dei missili a Cuba; esiste anche quello che fu eletto a Chicago con i voti della mafia e aumentò considerevolmente il numero degli osservatori militari americani in Vietnam.
Non esiste soltanto il Clinton delle nobili aspirazioni riformiste; esiste anche quello che scalzò Boutros Ghali dalla segreteria generale dell'Onu, aiutò la Croazia ad armarsi e tollerò che cacciasse più di 200 mila serbi dalla Krajna e dalla Slavonia.
È certamente vero ciò che Colombo afferma alla fine del suo libro. Esiste " un'America di alti principi, costruita dai padri fondatori su robusti pilastri di libertà, con una vocazione alla democrazia, all'eguaglianza, alla tolleranza " . Ma non riesco a condividere un'altra affermazione, poche righe più in là, secondo cui " la volontà monarchica di George W. Bush e dei suoi neoconservatori che predicano guerra " preventiva" e " infinita" non ha alcun precedente o sostegno nel passato americano, storia o cultura " .
Non sarebbero d'accordo i messicani, gli indiani, gli spagnoli del 1898, i filippini, i vietnamiti.
E non sarebbe d'accordo probabilmente, se avesse vissuto più a lungo, neppure Alexis de Tocqueville, il geniale intellettuale francese che descrisse la democrazia americana e che Colombo ha adottato, a giudicare dal titolo del libro e dalle frequenti citazioni, come guida e mentore del suo lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti. Un elogio della democrazia Usa, un'appassionata rivendicazione di coerenza


Il buio di Piazza Fontana
Giorgio Bocca su
la Repubblica 5 maggio

Una Milano buia come la sera del 12 dicembre 1969, la sera della strage di piazza Fontana non la posso dimenticare.
Allora abitavo in via Bagutta a quattrocento metri da piazza Fontana e dalla Banca dell´Agricoltura, la banca della strage. Milano in una caligine da Malebolge, da palude Stigia. E in quel buio arriva una telefonata da Pietra il direttore del Giorno. I direttori non ti chiedono mai se hai sentito, visto, saputo. Loro devono fare il giornale e ordinano: "Vai a vedere a piazza Fontana e poi vieni a scrivere il pezzo al giornale". Non era un bel vedere quello di piazza Fontana, non si poteva entrare nella sala terrena della banca dove una bomba aveva fatto strage, c´era solo da sentire l´odore acre di bruciato e di sangue, c´era da udire gli ululati delle autoambulanze, le grida di quelli che correvano sollevando le barelle, il buio pesto attorno ai fari bianchi, alle lampade rosse, rotanti, allo scempio dei corpi, ai getti d´acqua delle autopompe. C´era da vedere la cosa schifosa che è la strategia della tensione di cui una burocrazia cinica e sorniona è complice. Il gioco sta facendosi durissimo, a forza di simulare la guerra sociale la guerra è arrivata.
Un servizio segreto che impareremo a chiamare deviato, ma deviato da che nessuno può dirlo, ha messo Milano di fronte al misfatto. Andai al giornale a scrivere il pezzo e scrissi quello che era chiaro agli occhi di chiunque: la strage di piazza Fontana era una strage di Stato, per dire fatta da apparati statali che avremmo imparato a chiamarli deviati, un modo per dire: sono noti a una parte dello Stato, sono aiutati e coperti da una parte dello Stato ma diciamo che sono deviati. Così chi deve capire cosa vuol dire una bomba in una banca al centro di Milano mentre sta dilagando l´inverno caldo delle lotte operaie, capisce e si regola. Quella sera scrissi che la strage di piazza Fontana era una strage di Stato con tranquilla certezza senza tirare a indovinare. Mi chiamò Pietra, che aveva letto le cartelle una dopo l´altra, appena scritte. "Ma secondo te le bombe, qui a Milano e a Roma chi le ha messe?". "I carabinieri" risposi. Volevo dire quelli dei servizi segreti o delle trame nere, non i caramba, i ghisa, i celerini, insomma i poliziotti arruolati nelle campagne povere del Sud che vanno a farsi pestare in piazza.
"Tu dici?" fece lui. "Il prefetto Mazza è convinto che siano stati gli anarchici". Ma chiamo il fattorino e mando il pezzo in tipografia senza correggere una virgola. Si diceva di lui che era stato assieme a Cefis nel Sim, il servizio segreto dell´esercito. Aveva un sorriso strano, fra cautela e intesa. Durante la guerra partigiana non aveva mai portato armi ma comandava una divisione garibaldina essendo un deciso anticomunista. Il 25 aprile del '45 quando al comando generale partigiano decisero di mandare il colonnello Audisio a giustiziare Mussolini e i gerarchi fermò un amico che si era mosso per aggregarsi alla spedizione. Ma non era uomo del doppio gioco, era soltanto uno che la sapeva lunga sulla politica e che ci sapeva navigare. Uno che sapeva come vanno le cose di questo mondo. Io invece in quel mondo mi muovevo con poca sapienza e poca prudenza, trascinato dalla passione politica e sorretto da quella convinzione di onnipotenza, di quasi immortalità che la guerra partigiana mi aveva lasciato in corpo. Convinto di stare dalla parte della verità, dalla parte giusta. Le buone ragioni non mancavano. Non era credibile che quei quattro gatti senza protezioni e senza soldi dei circoli anarchici avessero potuto organizzare ed eseguire attentati simultanei a Milano e a Roma nella banca e all´Altare della Patria. C´era la contestazione studentesca e c´era la rabbia operaia ma la risposta del terrore appariva sproporzionata. Sapevamo poco o niente della guerra fredda della violenza e della rozzezza degli opposti apparati polizieschi, della Nato come del patto di Varsavia.
Ma dovevamo stare a quella scuola brutale di politica, dovevamo starci anche obtorto collo anche se ci sembrava impossibile che alti funzionari dello Stato fossero complici di delitti contro lo Stato, che un prefetto, un questore, un generale rendessero falsa testimonianza, dirottassero le indagini, facessero esplodere la bomba rimasta intatta alla Banca Commerciale per cancellare le prove e proteggere chi ce le aveva messe. La politica diventava misterica, sfuggente, incomprensibile. Un governo moderato che conosceva la nostra sudditanza dall´apparato atlantico si piegava a coprire le trame dei servizi, lasciava che gli scontri di classe fossero condizionati dalle bombe. Ma anche la risposta giovanile, le pulsioni rivoluzionarie, anche il gioco della rivoluzione invece di disvelare la congiura dei potenti la annodava, diffondeva la psicosi di un imminente golpe fascista, di destra, che fu la matrice del terrorismo. L´intolleranza si diffondeva, chi non era intollerante passava o per un debole o per un vile, per uno che tirava a campare. Riaffiorava la cultura del pressappoco, del fascismo che non è fascismo, del marxismo di chi non ha mai letto Marx. Tutto sembrava lecito e tutto sopportabile, come se a tutti fosse venuta una di quelle febbri maligne che non ti uccidono ma ti fanno impazzire, una di quelle febbri che non sai come curare, che da un giorno all´altro dovrebbero passare invece tirano avanti per anni. Bisogna stare al gioco e non è facile.
Un 25 aprile di quegli anni la preside di una scuola mi chiede se posso dir due parole ai suoi alunni. La scuola è alla Barona, un quartiere del sud Milano che sembra un suburbio africano, la commemorazione si tiene in un cinematografo, le scolaresche sono già entrate, il lancio delle bucce di mandarini, di castagne secche e di cartacce sembra però tollerabile, attacco la mia orazione piccola, e arriva subito la buriana. I ragazzi della Barona sono quasi tutti immigrati, non sanno nulla della Resistenza e comunque non gliene importa niente, mi lasciano parlare per due minuti, poi si alzano, urlano, lanciano quel che gli capita sottomano, gridano "vaffanculo nonno", in un pandemonio di inferno. La preside mi prende per un braccio e mi porta in salvo. Ma non è imbarazzata, ha l´aria di pensare che è andata bene così. Non avevamo previsto le bombe e non è stato possibile dare una mano a scoprire i colpevoli.
Lo Stato complice cancellava le prove, deviava i sospetti ma anche noi ci perdevamo fra le false notizie, le indiscrezioni pilotate, gli scoop che ci arrivavano dall´Ufficio Affari riservati diretto da un poliziotto gastronomo che si prendeva gioco di noi. Lavoravamo, cercavamo in un turbine di "notizie del diavolo", ci avventuravamo nel sottobosco dei finti misteri, dei mitomani, prendevamo per buone a volte le invenzioni dei chiacchieroni e dei fabbricanti di finte congiure. Un grande giornalista come Indro Montanelli che era anche persona civile e cortese perdeva il ben dell´intelletto accusando Camilla Cederna e Giulia Maria Crespi la proprietaria del Corriere della Sera di trame politico-erotiche con Mario Capanna e veniva preso sul serio dai carabinieri che perquisivano le ville della Crespi. E scambiare una Crespi per una sovversiva era davvero il segno della massima confusione. Ma ci furono anche i morti come Pinelli, i perseguitati come Valpreda, ci fu anche una sporca storia che non ha giovato a nessuno.


   8 maggio 2005