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sulla stampa
a cura di Fr.I. - 21 maggio 2003


L'accanimento del Cavaliere
Curzio Maltese su
la Repubblica

"Vi mando la Finanza". La minaccia classica di Sua Eccellenza da commedia all'italiana è diventata reale ieri pomeriggio quando i funzionari del Tesoro si sono presentati al quarto piano del Palazzo di Giustizia di Milano, dove sono in corso i processi a Berlusconi e soci, per un'ispezione speciale sulle spese delle inchieste. È un salto di qualità nella guerra senza quartiere del governo ai magistrati, che avanza fregandosene dei richiami del Quirinale ad abbassare i toni, una spallata al giorno, con la logica del regolamento di conti e della vendetta. "Le vie dell'intimidazione ai giudici sono infinite", commenta l'opposizione; ed è difficile darle torto.

Da un punto di vista tecnico l'ispezione è una mossa demenziale anche perché si sovrappone all'ispezione ordinaria già in corso da un paio di mesi nella Procura di Milano, guarda caso in pieno processo Sme. Ma gli effetti pratici, politici e mediatici sono ben calcolati. L'arrivo della Finanza e il raddoppio del controllo ha come risultato immediato la paralisi del palazzo di Giustizia milanese, dove si celebrano già con fatica i processi al premier, con oltre la metà degli impiegati dirottati alla ricerca di fascicoli dove gli inviati di Tremonti potranno spulciare ogni singola cifra spesa per intercettazioni, perizie, finanche per i traduttori dall'arabo nell'inchiesta sul terrorismo.

Con qualche particolare grottesco, come l'accanimento sulle consulenze per accertare i falsi in bilancio Fininvest, considerate oggi "inutili" perché (in seguito) il reato sarebbe stato di fatto abolito nel quadro delle leggi ad hoc proposte dalla maggioranza. C'è poi da giurare che qualche manina troverà il modo di passare i conti "sospetti" all'apparato mediatico al servizio permanente del premier nella guerra alla giustizia o almeno ai reparti di tiratori scelti sparsi fra tv e giornali, eccezionali nell'arte di analizzare la pagliuzza nell'occhio altrui quanto nell'occultare le travi.

Ma il segnale più inquietante è quello politico. È la prima volta, in dieci anni di lotta per l'impunità, che la pressione sui giudici arriva direttamente dall'esterno. Un colpo di maglio che cala dall'esecutivo, scavalcando l'autonomia del potere giudiziario. Stavolta a mandare gli ispettori non è un ministro della Giustizia come in passato Biondi, Mancuso e Castelli, con intenti magari intimidatori ma sempre nella logica della separazione dei poteri. A bussare alla procura di Milano è ora la Finanza inviata dal Tesoro, da quel Tremonti che all'improvviso si sveglia così dal letargo nel quale è piombato dopo il fallimento delle mirabolanti promesse di boom.

Si tratta di un'azione esemplare e spettacolare che traduce in simbolo immediato la volontà di Berlusconi di sottomettere il potere giudiziario all'esecutivo e lo esibisce all'opinione pubblica come fatto compiuto. Una volta ottenuta la rassegnazione generale, con l'aiuto di tv e giornali, si procederà alle leggi speciali. È un altro assaggio insomma della terza repubblica autoritaria che Berlusconi ha in mente, dove tutti i poteri, politico, economico, mediatico e giudiziario, sono in mano a uno solo.

Una prospettiva che sarebbe vissuta come un incubo in qualsiasi democrazia ma che in un paese come l'Italia, dove i media alimentano un clima da guerra civile a vantaggio del padrone, può essere presentata come una soluzione.



Brusca scarcerato Inchiesta di Castelli
brevissime del
Corriere

PALERMO - Parte l'inchiesta del ministro Castelli sulla scarcerazione del killer pentito Enzo Brusca. Il guardasigilli vuol sapere se nel provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Roma ci siano «profili meritevoli di valutazione disciplinare». Polemiche sul fronte politico-giudiziario. Il pm Alfonso Sabella difende Brusca: «E' un uomo buono, pentito davanti a Dio». Maria Falcone, sorella del giudice assassinato 11 anni fa a Capaci: «Da cattolica dico che la vera redenzione passa attraverso l'espiazione dei peccati. Brusca dovrebbe stare in galera». Brusca è stato condannato a 30 anni di carcere per l'uccisione, l'11 gennaio 1996, di Giuseppe Di Matteo, 11 anni, figlio del pentito Santino. Il bambino fu strangolato e il suo corpo fu sciolto nell'acido.


Telekom Serbia, dalla Svizzera sì alla rogatoria di Marini
Claudia Fusani su
la Repubblica

ROMA - La missione in Svizzera degli onorevoli-magistrati della Commissione parlamentare, questa volta autorizzata e legittima, al riparo da incidenti diplomatici e giudiziari. Il nuovo fascicolo d'indagine della procura di Torino che può avere due sviluppi: accertamenti nei confronti dei presunti destinatari della tangente Telekom Serbia; oppure l'incriminazione per calunnia di Igor Marini, il conte-faccendiere che ha riaperto il caso. Sono i passaggi decisivi, e forse finali, dell'affaire Telekom Serbia.

Il dato certo, consegnato ai verbali, è che Marini, nel carcere di Berna, ha ripetuto per otto ore ai magistrati torinesi quello che aveva già detto il 7 maggio in Commissione. Cioè di aver consegnato, tramite intermediari (i commercialisti Pintus e Margotti), a Dini, Fassino e Prodi, una tangente pari al tre per cento degli 878 miliardi che nel 1997 Stet e Telecom pagarono a Milosevic per acquistare il 29 per cento di Telekom Serbia. La procura nega che ci siano nuovi indagati e in ambienti giudiziari si fa notare che il teste "parla di consegna di soldi ad intermediari e non di una consegna diretta".

Dini, Fassino e Prodi hanno già querelato Marini che, oltre ad essere a questo punto il teste-chiave, è anche indagato per riciclaggio e truffa dalla procura di Roma ed è in carcere in Svizzera per gli stessi reati. Le manette sono scattate la sera del 9 maggio, quando il faccendiere convinse la Commissione ad accompagnarlo a Lugano dove custodiva le prove della tangente.

L'accelerazione della procura di Torino e il via libera del ministero della Giustizia elvetico per la rogatoria richiesta dal Parlamento, dettano un nuovo programma. Stamani l'ufficio di presidenza della Commissione Telekom Serbia deciderà quando andare a sentire Marini. Il presidente Trantino e la maggioranza vorrebbero partire già lunedì, per mettere in cassaforte il prima possibile la verità. L'opposizione, l'onorevole diessino Giovanni Kessler in testa, chiede invece più tempo: "Vogliamo sentire Marini dopo aver letto e approfondito ciò che ha detto ai magistrati".



L'assalto delle «bombe che camminano»
Centinaia di aspiranti kamikaze. Nessun addestramento, solo l'ordine di seminare morte
Guido Olimpio sul
Corriere della Sera

Gli ultimi kamikaze venivano dalla disperazione di Sidi Moumen, baraccopoli di Casablanca dove neppure la polizia ha il coraggio di entrare. Ragazzi senza futuro, figli di famiglie povere, costretti a sopravvivere in uno dei tanti ghetti del mondo. Per alcuni, essere riusciti a frequentare una scuola era già un successo. Un profilo diverso da quello di Mohammed Atta e la famigerata cellula di Amburgo, responsabile dell'11 settembre. Diplomi e soldi in tasca, possibilità di viaggiare in prima classe, preparazione elevata. Ma i «martiri» di Casablanca e quelli delle Torri Gemelle, nel credo delle loro formazioni, vivono insieme nel Paradiso delle Vergini. E per chi si batte nel nome della Jihad sono un modello da imitare.

IL NUMERO - La nuova stagione delle «bombe che camminano» è segnata da un elemento impressionante. Il numero dei kamikaze e degli aspiranti. Saltano per aria a decine, ma dietro di loro sono pronti altrettanti. A Riad ce ne erano 15 come i quindici sauditi membri del commando dell'11 settembre. In Marocco si sono lanciati all'attacco in 14 e due sono stati catturati. I palestinesi, che hanno indicato il sentiero di morte, hanno iniziato a impiegarli in coppia. Un primo colpo sull'obiettivo, seguito dalla seconda esplosione tra i soccorritori. Lo spiegamento della falange suicida inquieta. Fino alla metà degli Anni '90, i reclutatori dosavano le forze, sceglievano con cura il futuro «shaid», lo preparavano. Doveva essere sacrificato ma era comunque un'arma preziosa per i terroristi. Oggi ne hanno così tanti che non si curano di nulla. C'è in alcuni casi la lista d'attesa. A Gaza è accaduto che un militante della Jihad, stanco di aspettare la missione, abbia compiuto «l'operazione» per conto di Hamas. Ai mandanti basta sapere che esiste la disponibilità all'azione sacrificale e quando sarà il momento lo convocheranno per dargli la cintura esplosiva. In due anni e mezzo di intifada sono morti in attentati oltre 150 kamikaze: un esercito se consideriamo che nei territori palestinesi vivono 3 milioni e mezzo di persone. Seconda riflessione. Le intercettazioni e le inchieste condotte anche in Italia provano che sono decine i militanti pronti a tutto. Spesso supplicano i loro capi «per fare qualcosa». Sono disposti a partire da Londra per immolarsi in un pub di Tel Aviv. Lasciano Cremona e vanno a morire in Kurdistan. Due esempi tratti dalla realtà che confermano un'ipotesi: i possibili attentori suicidi sono centinaia.


L'AMBIENTE - Lo spirito di rivolta, il fervore religioso, la voglia di colpire sono una costante della società palestinese. «Oggi in qualsiasi famiglia si parla dei kamikaze, molti dei nostri figli considerano la loro scelta come un fatto ineluttabile», mi ha detto il padre di una attentatrice suicida di Betlemme. Migliaia di persone vivono come in una bolla di violenza e oppressione. Le chiusure imposte dai soldati israeliani unite all'incitamento all'odio accrescono il desiderio di distruzione. Attivando la cintura esplosiva il terrorista vuole dimostrare il suo attaccamento alla causa ma al tempo stesso intende liberarsi dalla cappa di ferro.


CHI SONO - Gli attentati palestinesi e quelli di Al Qaeda hanno sconvolto il profilo tipo del kamikaze. L'età varia dai 18 ai 30 anni, ma durante l'intifada si sono avuti almeno un paio di casi con un quarantenne e un arabo-israeliano di 55 anni. All'inizio erano celibi, poi sono arrivati gli sposati con figli come uno dei kamikaze anglo-pachistani protagonisti dell'attacco sul lungomare di Tel Aviv. Primo esempio di un suicida d'origine europeo impegnato sul fronte mediorientale. Le polizie occidentali sono sicure che l'esempio sarà presto seguito da altri. Potranno agire ad Amman come a Parigi. E' variabile anche l'educazione degli estremisti. Trovi ragazzi che sanno appena leggere e scrivere, ma anche laureati e diplomati. Le divisioni di censo sono inesistenti: si uccide chi ha il lavoro e chi invece lo aspetta. La disperazione è solo un segmento, il senso di riscatto pure come lo è la considerazione economica. Molte famiglie sono state risarcite - si fa per dire - con un assegno di 10-25 mila dollari versato tanto da Hamas che dal defunto regime di Saddam Hussein.


LE BOMBE - La cintura cambia a seconda del teatro e delle possibilità. I palestinesi usano cariche che oscillano tra i 5 e 12 chilogrammi, a cui aggiungono chiodi, viti e biglie di ferro. L'esplosivo è civile, spesso si tratta del fertilizzante e potassio. Una ricetta usata anche dagli artificieri di Casablanca. A Tel Aviv i due «europei» hanno invece adottato del plastico, forse arrivato dall'estero. Al Qaeda fa una sintesi tra i due sistemi e sui camion-bomba infila delle bombole di gas per aumentare l'onda d'urto.


Crollano gli ordinativi dell'industria, l'Italia a un passo dalla recessione
sommari de
l'Unità

Un tonfo degli ordinativi dell'industria a marzo (-9%) mette in allarme tutti, tranne il governo. I pessimi dati Istat di marzo fanno fare un salto sulla sedia a industriali, sindacati, commercianti, associazioni di categoria. Le previsioni per i prossimi mesi si tingono sempre più di nero e non è solo colpa dell'euro forte che deprime le esportazioni, i dati parlano chiaro: anche il mercato interno e i consumi languono. Roberto Pinza, ex sottosegretario del centrosinistra dice: «Sono gli effetti della cura Tremonti, è l'ora che Berlusconi si occupi dei problemi dell'Italia». Epifani chiama Confindustria a una nuova politica che affronti i problemi di un possibile declino industriale del Paese.


L'Istat misura l'Italia
Il Rapporto annuale sulla situazione del Paese nel 2002: una panoramica dei principali fenomeni economici, demografici e sociali, visti nel contesto europeo.
uno speciale de
Il Sole 24 Ore

Nel 2002 l'economia italiana è cresciuta di appena lo 0,4%, il ritmo di sviluppo più basso dal 1993, in netta decelerazione rispetto all'anno precedente (+1,8%). Il rallentamento ha avuto origine sia da fattori esterni, quali la debole domanda mondiale e l'apprezzamento dell'euro, che hanno frenato le esportazioni, sia da fattori interni, quali il calo della fiducia dei consumatori e delle imprese, che hanno condizionato i consumi e gli investimenti, soprattutto nella prima parte dell'anno. Il recupero di dinamismo di queste due fondamentali componenti della domanda nell'ultimo trimestre del 2002 non ha portato, tuttavia, a una significativa accelerazione del Pil, perché la maggiore domanda interna è stata soddisfatta in larga misura dalle importazioni e dalla variazione delle scorte. Ne è risultato, quindi, un contributo negativo della domanda estera netta alla crescita del Pil italiano.

Le prospettive per il 2003 sono strettamente legate all'evoluzione della congiuntura internazionale, tuttora caratterizzata dal perdurare della fase di debolezza ciclica e da un diffuso quadro di incertezza, anche dopo la rapida conclusione del conflitto in Irak. Tutti questi fattori condizionano fortemente l'andamento della domanda e della produzione, con l'effetto di ridurre le stime di crescita nei principali paesi, inclusa l'Italia. I risultati conseguiti nel primo trimestre dell'anno confermano la fase di stagnazione che caratterizza ormai da tempo la congiuntura italiana e, più in generale, quella europea. In tale contesto, il nostro paese è previsto crescere di circa l'1%, un valore sostanzialmente in linea con la media dell'area dell'euro e con quanto previsto dalla Commissione Ue sia per l'Italia che per Eurolandia.

Il Rapporto annuale dell'Istat, pubblicato com'è ormai consuetudine nella tarda primavera, giunge quest'anno alla sua undicesima edizione. Differenziandosi dai tradizionali volumi che costituiscono i classici prodotti dell'Istituto, quali l'Annuario statistico italiano, il Rapporto ne rappresenta un'organica sintesi dell'attività di rilevazione e di ricerca, dove i dati sono raccolti, analizzati e interpretati in un insieme di testi, tabelle, approfondimenti. I temi descritti e sviluppati vanno da un'analisi della congiuntura economica nel 2002, della finanza pubblica, del mercato del lavoro, del sistema delle imprese e dell'apparato produttivo, sino alla trattazione dei principali aspetti demografici e sociali, come la previdenza, la sanità, la qualità della vita, il disagio sociale, i rapporti fra cittadini e istituzioni.
Il Rapporto realizza, infatti, una forma d'interazione tra l'attività dell'Istat e gli altri soggetti del sistema statistico nazionale, le università, i centri di ricerca pubblici e privati, in linea con le riforme della statistica ufficiale avviate oltre un decennio fa. Tutti i grandi temi dell'economia e della società che sono oggetto di dibattito trovano, dunque, in questo volume una serie di contributi informativi documentati. Si tratta di un grande e complesso lavoro di sintesi, in linguaggio sempre chiaro e accessibile, dello "stato di salute" dell'Italia nell'inizio del nuovo millennio e dell'età dell'euro.

Rapporto annuale
Sintesi
Testo integrale
Dati statistici


«Mario Moretti era un infiltrato, Cia e Kgb dietro il caso Moro»
Il fondatore delle Br Franceschini: «Giusti i dubbi posti dall'ultimo film»
Giovanni Bianconi sul
Corriere della Sera

ROMA - Quando si accendono le luci del cinema e sullo schermo c'è ancora il nipote di Aldo Moro che canta «Maledetti voi, signori del potere...», l'ex brigatista Alberto Franceschini si scopre a piangere: «Mi sono commosso, perché è esattamente il film che avrei voluto vedere». Renzo Martinelli, regista di «Piazza delle Cinque lune - il thriller del caso Moro» , si scopre invece arrabbiato: «Abbiamo detto cose fortissime, ci sono accuse violentissime contro personaggi pubblici come il capo brigatista Mario Moretti o l'ex presidente Cossiga, eppure su una denuncia così radicale è scesa un'inspiegabile cortina di silenzio». Franceschini cerca di spiegargliela: «E' una tecnica, meglio non parlarne che essere costretti a rispondere su certe cose». Il cineasta e l'ex terrorista sono sostanzialmente d'accordo: una congiura copre i misteri del caso Moro, garantiti dal silenzio degli ex br che furono protagonisti del sequestro e dell'omicidio del leader democristiano. A cominciare da Mario Moretti, la mente dell'operazione. Nel film si dice senza giri di parole che è una spia, il braccio operativo di interessi che superano i confini italiani e quelli dell'Atlantico, fino agli Stati Uniti. «Ogni volta che in questa storia compaiono i servizi segreti, dietro c'è la figura di Moretti», dice un protagonista nel mezzo di un dialogo che riassume le presunte trame oscure del delitto di 25 anni fa. E Franceschini, che di Moretti fu compagno d'armi ai tempi delle prime Br, che cosa ne pensa? Di dubbi sul capo che prese il posto suo e di Renato Curcio dopo il 1974 l'ex terrorista ne ha seminati tanti, in questi anni. Dopo la visione di film la domanda non può che essere diretta: allora Moretti era una spia? Vi ha giocati tutti quanti?
«L'espressione spia non mi piace - risponde Franceschini -, preferisco parlare di infiltrato». Da parte di chi? «Del terzo livello». Un termine nuovo, per il terrorismo. E' stato usato molto (e anche un po' a sproposito) per la mafia, non per la lotta armata. Che vuol dire? «Il primo livello - spiega Franceschini - era il movimento rivoluzionario e il secondo le Br, che quel movimento infiltrarono al fine di reclutare militanti. Poi c'è stato il terzo livello, rappresentato da chi utilizzava anche la lotta armata per garantire gli equilibri del mondo sanciti a Yalta, nel 1945, quando l'Est e l'Ovest rappresentati da Roosevelt, Churchill e Stalin si spartirono il mondo».

I discorsi s'intrecciano e sembrano sfiorare, a tratti, la fantapolitica applicata agli anni di piombo. Come si spiega, infatti, che decine di pentiti e dissociati (a tutti i livelli dell'organizzazione) non abbiano mai voluto o saputo dire niente sui sospetti riguardanti Moretti o altre «stranezze» del caso Moro? «Piazza delle Cinque lune » - racconta il regista - parte dalle anomalie dei 55 giorni della primavera 1978, dal sequestro all'omicidio di Moro, e smaschera «le menzogne» raccontate su alcuni passaggi-chiave della vicenda: dalla strage di via Fani alla scoperta del covo di via Gradoli, dalla prigione alla tipografia clandestina. Secondo gli autori del film niente torna delle versioni brigatiste, mentre tutto (o quasi) si spiegherebbe con la loro interpretazione dei fatti. E un «padre fondatore» delle Br come Franceschini è d'accordo.

Ma il regista è comunque soddisfatto della telefonata ricevuta dalla vedova di Moro, la signora Eleonora, silenziosa da 25 anni, che l'ha chiamato prima ancora che uscisse il film per dirgli: «Se lei sapesse com'è sporca la verità di questa storia, forse sarebbe meglio lasciar fare a Dio». E Franceschini ricorda che il primo a sospettare, nelle Br, che Moretti era una spia non fu lui ma Curcio; e rammenta una frase che gli disse Moretti, in carcere, quando lui era in procinto di dissociarsi: «Se pensi di vendere le Br ti sbagli, l'unico che può farlo sono io».

E nei racconti di pentiti e dissociati non c'è grande spazio per le «dietrologie» che si intravedono nel film, e prima ancora in tanta letteratura. «Perché nelle galere c'è stata la contrattazione su quello che si doveva e non si doveva dire - accusa Franceschini - e il silenzio è stato pagato con la libertà o i benefici di legge a favore degli ergastolani». C'è però il particolare che almeno un br che partecipò all'agguato di via Fani sta ancora in galera, e che i misteri veri o presunti del caso Moro - a parte la fine che ha fatto l'originale del memoriale scritto dallo statista ostaggio delle Br, su cui s'interrogò per primo il generale Dalla Chiesa - sembrano gravare più sulle azioni dello Stato che su quelle delle Br. Ma il regista e l'ex terrorista insistono e lanciano una fida: «Perché chi si dovrebbe sentire quantomeno diffamato dalle nostre affermazioni non ci denuncia? Forse sarebbe un modo per verificare chi mente».


Pintor, addio a un comunista
Piero Sansonetti su
l'Unità

Valentino Parlato ha riassunto in tre parole il suo ricordo di Luigi Pintor: dolore, orgoglio, impegno. Il dolore per la morte, l'orgoglio di essergli stati amici, l'impegno a continuare sulla via della critica e della battaglia. Tre parole che riassumono un po' anche la vita di Pintor: sono stati gli scogli intorno ai quali ha navigato sempre, da quando era ragazzo. Nella sua vita privata e in quella pubblica.
Con la sua faccia sarda, sempre serissima, piena di tristezza e di testardaggine, che però - ha detto Riccardo Barenghi - nascondeva una grande capacità di ironia e anche di contentezza. Barenghi ha detto che Pintor sapeva essere “contento” anche se non è mai riuscito ad essere felice.
I funerali di Pintor si sono svolti ieri pomeriggio a Roma, a piazza Farnese, a un passo da Campo de' Fiori. Un piccolo palco allestito proprio sotto l'ambasciata francese, con un microfono e due casse acustiche che funzionavano abbastanza male. Un gruppo di amici di Pintor e di giornalisti del "manifesto" si sono alternati a pronunciare brevi discorsi e a leggere alcune poesie. Una di Rilke, una di Caproni. Poi l'ultimo saluto è stato lasciato a Chopin. Un funerale anomalo - ha detto Barenghi - come è sempre stato un giornale anomalo "il manifesto".
In piazza c'erano cinque o seimila persone. In un clima molto laico, però commosso. La piazza ha applaudito tutti i discorsi e in particolare ha applaudito Pietro Ingrao, che non ha parlato ma è stato su una seggiolina, sul palco, per tutta la durata della cerimonia. A rappresentare quella generazione cocciuta di comunisti della quale Pintor era uno degli esponenti più giovani.
La folla era formata soprattutto dal vecchio popolo della sinistra romana. Quello tradizionale, ex Pci - in parte rimasto al Pci dopo il '69, in parte uscito col "manifesto" - e quello dei sessantottini, cioè degli allievi di Pintor. E insieme a loro un certo numero di intellettuali e dirigenti politici di altra estrazione, laica o socialista o anche cristiana. Il tutto faceva uno strano effetto, perché era una piazza molto variegata, eterogenea. C'era Daniele Pifano, vecchio leader della autonomia operaia nel '77 - quella dell'assalto a Lama - e poi c'erano Giovanni Berlinguer e Gianni Cuperlo, e poi ancora Giorgio La Malfa, Roberto Villetti, Giampiero Mughini e Fabrizio Rondolino. Poi c'erano tanti altri nomi famosi mescolati tra la folla. Per esempio Santoro e Lucia Annunziata, Carlo Freccero e Nanni Moretti, e moltissimi intellettuali, alcuni anche molto lontani dal pensiero di Pintor, per esempio Achille Ardigò.
Come si spiega questo miscuglio? Semplicemente col fatto che per descrivere Pintor ci vogliono due parole, non ne basta una: comunista e giornalista. Pintor era assolutamente comunista e assolutamente giornalista, ed era un maestro straordinario in tutte e due le “attività”. Qualcuno era al suo funerale per amore verso il comunista, qualcuno, forse, solo per rispetto - o riconoscenza - nei confronti del grande giornalista. Luigi Pintor è stato senza dubbio uno dei tre o quattro giornalisti più grandi nella storia della nostra Repubblica. E aveva un enorme numero di allievi: alcuni insospettabili. È stato un grande sia per la sua gigantesca capacità di scrittura e di “diffusione” del pensiero, sia perché è stato la mente di una delle pochissime importanti operazioni editoriali dell'ultimo mezzo secolo, e cioè la creazione del "manifesto".
Per queste due ragioni la perdita di Pintor è molto pesante: non sono rimasti in giro molti grandi giornalisti, e neanche molti comunisti. Pintor apparteneva a due speci rare, forse in estinzione.
La cerimonia funebre è stata aperta alle sei in punto, con puntualità tutt'altro che romana - forse sarda....- dal direttore del "manifesto" Riccardo Barenghi, che poi ha dato la parola agli altri amici che volevano parlare. Barenghi è un giovane, quando Pintor fondò "il manifesto" - con Aldo Natoli, con la Rossanda, con Magri, con la Castellina e con Valentino Parlato - Barenghi faceva la prima media. Pintor gli ha insegnato tutto. Ieri Barenghi era travolto dalla commozione. Parlava con un filo di voce. Ha detto che per lui è stata una perdita che non capisce come sarà possibile superare.
Poi ha parlato la Castellina, che ha rivendicato con grinta la scelta comune. Ha detto che trentacinque anni fa, quando il Pci li cacciò per frazionismo, avevano ragione loro del "manifesto" e aveva torto il Pci. Avevano ragione non perché erano eretici, ma perché “vedevano bene”. Luciana Castellina ha detto che Pintor non era un visionario era un analista lucido. E che se la sinistra avesse dato retta al "manifesto" nei primi anni settanta, forse avrebbe evitato la sua crisi di oggi.
È così? Giovanni Berlinguer, che nel '69 - quando Pintor fu cacciato dal partito - stava nel Comitato centrale che votò la cacciata, non sa se l'analisi della Castellina è giusta o sbagliata. Pero sa - e lo ha detto dal palco - che fu sbagliata la decisione di cacciare "il manifesto" dal Pci. «Non trovo nessuna giustificazione valida per quel voto favorevole alla radiazione, che pure io diedi nel '69. Né trovai nessuna giustificazione negli anni immediatamente successivi a quegli avvenimenti. L'idea che un partito potesse ritenersi più forte perché impediva il formarsi di nuove correnti di pensiero, era una idea nefasta che purtroppo ha attraversato tutta la storia del comunismo e ha prodotto enormi danni».
L'ultimo discorso è toccato a Valentino Parlato, che per anni si è alternato con Pintor e la Rossanda alla direzione del giornale. Ha definito Pintor “un principe in questo passaggio di secolo”.


«Addio privacy, i chip spiano il nostro corpo»
Allarmata relazione del Garante: genetica ed elettronica ormai ci tengono al guinzaglio
Claudio Lazzaro sul
Corriere della Sera


ROMA - Con la relazione annuale del Garante per la protezione dei dati personali, Stefano Rodotà, ieri mattina a Palazzo Giustiniani, davanti ai presidenti delle Repubblica e del Senato, il linguaggio di Matrix è entrato nell'agenda della politica italiana. Dopo aver denunciato i rischi di una «società della sorveglianza», Rodotà ha parlato di guinzagli elettronici, furti d'identità, chip sotto pelle, interazione tra genetica e Internet. Una terminologia da film di fantascienza, per descrivere problemi allarmanti e concreti.

TUTTI SORVEGLIATI - «I luoghi pubblici vengono sottoposti a un controllo capillare - ha detto Rodotà -. I dati riguardanti il traffico telefonico, la posta elettronica, la navigazione su Internet, vengono conservati per periodi sempre più lunghi. Ognuno di noi ha un corpo elettronico, fatto di informazioni che ci riguardano, distribuite nelle banche informatiche». Dati sulle nostre condizioni di salute e il nostro profilo di consumatori. Ma le informazioni sul Dna potrebbero essere usate per discriminare una persona al momento della ricerca d'impiego o della stipula di un'assicurazione. Per acquisire un codice genetico (e rubare un'identità) basta procurarsi un tovagliolo o un bicchiere usati.
I test genetici vengono offerti perfino via Internet. «Esiste un problema di consenso - spiega il Garante - per i test di paternità, ordinariamente chiesti dal padre dubbioso, utilizzando materiale genetico di un minore all'insaputa della madre».
I dati biometrici vengono usati al posto delle parole chiave, nei sistemi di protezione: non soltanto le impronte digitali, ma la mappa dell'iride, i tratti del volto, lo stesso Dna. Il corpo diventa una password e come tale registrato e scannerizzato in altre banche dati raggiungibili via Internet. Come proteggere questi dati da una schedatura centralizzata di massa? «Dovremo concordare a livello internazionale - risponde Rodotà - una "Costituzione di Internet", altrimenti le regole verranno dettate dalla tecnologia e dal mercato».


GUINZAGLIO ELETTRONICO - «Il telefono mobile - avverte Rodotà - con la tecnologia attuale diventa un invisibile filo elettronico che permette di seguire ogni nostro movimento». In alcuni prodotti il chip viene inserito per controllare il comportamento del consumatore, come una specie di guinzaglio elettronico. Inquietante il caso della Gran Bretagna, dove il terrore per gli episodi di violenza sui minori, ha portato alla progettazione di chip da inserire sotto la pelle dei figli per renderli reperibili. Su questi temi e su altri, come lo spamming (invio di email indesiderate), il Garante lavora di concerto con l'Unione Europea. Ma ora il modello europeo è messo alla prova dalla richiesta americana di avere tutti i dati su chi vola dall'Europa verso gli Usa. Richiesta contrastata dal Parlamento europeo. «Un atteggiamento di fermezza - dice Rodotà - che dovrebbe essere fatto valere dall'Ue anche a proposito del «Programma per la conoscenza totale delle informazioni» che l'amministrazione Usa intende utilizzare per il controllo di tutte le comunicazioni di ogni cittadino del pianeta, eccezion fatta per gli americani».
Una materia scottante sulla quale è intervenuto anche il presidente del Senato, Marcello Pera: «Caso per caso bisogna trovare un punto d'equilibrio. Vi sono circostanze in cui la sicurezza, ad esempio contro il terrorismo, può prevalere sulla privacy».

In rete approfondimenti e la possibilità di scaricare la relazione integrale del Garante della privacy


PRIVACY L'allarme di Rodotà
Siamo al guinzaglio elettronico. E il Pentagono chiede il via per il «grande fratello» mondiale
sommari de
il Manifesto

Si chiama Tia, Total Information Awareness, il progetto di banca dati planetaria che il Pentagono intende realizzare per combattere il terrorismo. Richieste di passaporti, visti internazionali, permessi di lavoro, patenti, biglietti aerei, precedenti penali e perfino il modo di camminare di ciascun abitante del globo finirebbero in un gigantesco archivio elettronico gestito da un software di una potenza tecnologica finora impensabile, misurabile in petabyte (cioè in milioni di miliardi di bytes). Il progetto viene sottoposto ora all'esame del Congresso Usa, grazie alla battaglia delle associazioni per i diritti civili che ne hanno contestato la segretezza. E questo mentre Stefano Rodotà, Garante italiano e presidente dei Garanti europei della privacy, nella sua relazione annuale al parlamento italiano lancia l'allarme contro la società della sorveglianza totale e del «guinzaglio elettronico» e rilancia il modello europeo dei diritti fondamentali e della cittadinanza elettronica contro le tentazioni della classificazione e del controllo totale che vengono dall'altra sponda dell'Atlantico. La tutela dei dati personali, dice Rodotà, non si può sacrificare sull'altare della sicurezza. E il corpo non può diventare una password per procedure di identificazione e controllo a distanza. Imminente in Italia l'approvazione del codice per la protezione dei dati personali. Allarme del Garante anche sull'uso di Internet come contenitore di messaggi di pubblicità.


"No al rock di Marilyn Manson"
Milano boccia lo show satanico. "Esibizione diseducativa": il Comune non vuole concedere la sede per lo spettacolo del 7 giugno
Luigi Pastore su
la Repubblica

MILANO - Lo show di Marilyn Manson al bando da Milano. Rischia di essere annullato il concerto del re del rock satanico, in programma il 7 giugno al Mazda Palace, l'ex Palatrussardi. Il Comune di Milano, dopo aver negato agli organizzatori lo stadio di San Siro e il Velodromo Vigorelli, vuole vietare lo show anche al Mazda Palace, che è attualmente in concessione alla società "Divier Togni".

Il vicesindaco Riccardo De Corato, di An, spiega che l'esibizione di Manson è "diseducativa" e che nella prossima riunione di giunta ne chiederà l'annullamento: "È inconcepibile che si svolga uno spettacolo del genere, al quale possono assistere anche dei minorenni. Abbiamo già pareri legali che ci confortano; nei prossimi giorni decideremo". Un articolo della convenzione stipulata dal Comune con la società che gestisce il palazzetto prevede, infatti, che tutti gli spettacoli in programma al Mazda Palace debbano poter essere seguiti anche dai minori.

È su questa base che la giunta comunale vuole vietare lo show, mentre in Consiglio è stata presentata ieri dalla maggioranza di centrodestra, ma anche dalla Margherita, una mozione urgente, nella quale si chiede che il Comune "non dia il permesso allo svolgimento del concerto, perché tale musicista è noto al pubblico per le sue dichiarate ispirazioni sataniche e per l'incitamento alla violenza".

Una mozione bocciata tuttavia da due consiglieri di Forza Italia, e soprattutto da Ds e Rifondazione: "Ognuno di noi può avere l'opinione che preferisce su Marilyn Manson, ma vietare un concerto, perdippiù in un luogo privato, è un atteggiamento illiberale, è un gravissimo gesto di censura culturale", sottolineano.

E gli organizzatori dello show, per il quale sono arrivate richieste per 10mila biglietti, sono furibondi: "È una censura frutto dell'ignoranza e della volontà di sviare l'attenzione dai veri problemi del Paese. L'ultimo album di Manson The golden age of grotes è primo in classifica e non ha mai subito censure. Se vietano il concerto, allora dovrebbero ritirare tutti i suoi dischi dal mercato".

Per Marilyn Manson quella di Milano è la seconda bocciatura in Lombardia. Lo spettacolo del 7 giugno, infatti, si sarebbe dovuto tenere a Monza, ma è stato vietato dal sindaco Michele Faglia, a capo di una giunta di centrosinistra, ufficialmente perché lo stadio "Brianteo", destinato ad ospitarlo, è inagibile per lavori di ristrutturazione.


  21 maggio 2003