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Quel che ricordo di Craxi e dintorni
Giacomo Correale Santacroce


craxi  

Ho sicuramente un ricordo un po' semplificato, da non addetto ai lavori, della “era Craxi”. Ma mi sembra ugualmente giusto ed utile esporlo, soprattutto per chi non c'era ancora o era troppo giovane.

Ricordo fatti che risalgono addirittura agli anni Settanta, quando facevo parte di un comitato per la programmazione della Regione Lombardia presieduto da Silvano Larini, stretto collaboratore di Craxi. Lo si vedeva raramente, era sempre in giro per il mondo, anche con il suo yacht, con base all'isola di Cavallo, in Corsica, e capitava in Regione solo per gestire questioni politico-finanziarie. In quel tempo la Regione acquistò le Ferrovie Nord, con una operazione molto costosa per l'istituzione ma che costituì una miniera d'oro per gli affaristi politici di tutti i partiti (compresi quelli del PCI), come emerse successivamente con le condanne bipartisan irrogate dai giudici di Mani Pulite.

Occupandomi di economia, della “era Craxi” (anni Ottanta) ho sempre presente che fu un periodo di sperperi pazzeschi, all'insegna del keynesismo all'italiana (il keynesismo vero dice: “In periodo di vacche magre spendi (e non preoccuparti del pareggio) i risparmi che hai fatto in periodo di vacche grasse”; quello all'italiana dice: “Spendi, spendi, spendi senza limiti”). Il risultato è noto: un debito pubblico portato ai limiti della bancarotta. Gli slogan diventati popolari che parlavano di “Nani e Ballerine”, di una “Milano da Bere”, non erano altro che la consapevolezza diffusa degli arricchimenti generati da questo sacco delle risorse pubbliche, in una euforia economica (“abbiamo superato la Gran Bretagna”, “faremo la “lira forte”) che preludeva all'inevitabile disastro. Disastro scampato ai limiti del tempo massimo grazie a Ciampi, Amato e Prodi, ovviamente con pesanti mazzate fiscali sui contribuenti.

Sul piano politico, delle cose fatte dallo “statista” Craxi (ricordato dal suo ministro degli esteri-capellone De Michelis come “il più grande statista italiano di ogni tempo”, o come un Giuseppe Garibaldi!) ricordo le cose su cui battono monotonamente i suoi sostenitori: la vicenda molto confusa di Sigonella, la revisione del Concordato, e poco altro. Ma anche se si ricordano le cose più consistenti (il blocco della scala mobile, l'autorizzazione agli Usa di installare in Italia missili atomici per contrastare quelli russi), non si intravede nulla di particolarmente straordinario. Non mi sembra che il nostro statista abbia inciso gran che sui grandi avvenimenti degli anni Ottanta, che hanno portato al crollo del muro di Berlino. Uno statista, poi, si giudica dai risultati della sua azione per il suo paese. In questo caso, i risultati sono stati nefasti da tutti i punti di vista. Craxi ha praticato piuttosto una politica di immagine, urlata a uso interno, nulla di nuovo sotto il sole. Grandi proclami, pochi risultati. Le vignette di Forattini, che rappresentavano Craxi con gli stivaloni alla Mussolini, sono rimaste emblematiche. Quindi, il nostro non è stato nemmeno lontanamente comparabile con i pochi grandi statisti italiani che hanno creato e dato slancio al Paese, del calibro di Cavour, Giolitti, De Gasperi. Comparabile piuttosto in sedicesimo con Mussolini, come del resto il suo attuale continuatore. Il fatto è che, allora come oggi, la demagogia e l'arroganza, proprie dei regimi autoritari, da noi fanno ancora premio rispetto a una leadership democratica, cioè esemplare e responsabile.

Quanto ai rapporti tra politica ed etica, l'era Craxi si è distinta per il definitivo distacco, anzi il distacco conclamato come nuovo costume, della prima dalla seconda. La conclusione è nota: la condanna del suo massimo teorizzatore e praticante per corruzione e per altri reati, condanna definitiva, cioè espressa da tre organi giudiziari diversi a tre livelli, sigillata dalla Corte europea. La famosa autodifesa, pronunciata in Parlamento, non fece che confermare la teoria: questo è il sistema, se condannate me dovete condannare tutti. Come dire: il reato è pratica diffusa, se non riuscite a prendere tutti i delinquenti, allora dovete assolvermi.
Furono i tempi di Mani Pulite. In un paese da sempre classificato tra i più corrotti, l'azione dei giudici (i cui maggiori esponenti erano tutto meno che comunisti) fu salutata, in Italia e all'estero, come un segno di rinnovamento. Il prestigio della magistratura era ai vertici delle classifiche.
Ma i giudici non avevano fatto i conti con i mass media. E con chi li controllava e li controlla. Con il vero erede di Craxi che ha perfezionato la teoria e la pratica (probabilmente con qualche integrazione massonica e mafiosa). I giudici non avevano fatto i conti abbastanza con i poteri oscuri, con gli innovatori gattopardeschi del “che tutto cambi perché tutto resti come prima”. Oggi il loro prestigio è distrutto, sono tutti faziosi, comunisti.
Ed eccoci tornati all'inizio. O meglio indietro, molto indietro. Per certi versi, prima della nascita della Repubblica.

Giacomo Correale Santacroce

P.S. Tra le tante cose scritte recentemente su Craxi, la ricostruzione più interessante, equilibrata, in parte discordante con quanto sopra mi è sembrata quella di Giuseppe Turani su la Repubblica del 4 gennaio, p.23, dal titolo “Non basta una strada a Craxi, tema ineludibile”.
Anche Turani parla della “scelta rovinosa delle tangenti, gli arricchimenti, gli scandali nel clima del cinismo realpolitik inalberato da Craxi”, e la collega con il suo disegno di liberare il PSI dalla soggezione al PCI, e di far fronte “al consociativismo berlingueriano con la sinistra DC e all'invadenza sindacale”, a cui Turani attribuisce anche la dilatazione del debito pubblico. Sono tesi che non giustificano certo la “scelta rovinosa”, che se mai ridimensionano ulteriormente la leadership craxiana, ma che sicuramente invitano a riflessioni purtroppo ancora attuali.



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  7 gennaio 2010