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ECONOMIA E DINTORNI
Un caffe' vale dieci euro? E perché no?
di Giacomo Correale Santacroce


tazza di caffè
 
Nelle discussioni sugli aumenti dei prezzi, spesso ci si scandalizza perché un prodotto, ad esempio un'arancia, che viene pagata al produttore pochi centesimi al chilo, venga poi venduta al consumatore a due o tre euro.
In un libro di successo (B. Joseph Pine, James H. Gilmore, L'economia delle esperienze, Etas, 2000) si è osservato che un caffè, pagato al produttore uno o due centesimi di dollaro, sugli scaffali del supermercato costa dieci volte di più, servito al bar 100 volte, mentre a una coppia di turisti seduti al Caffè Florian in piazza San Marco a Venezia viene fatto pagare quasi mille volte. “Quando abbiamo chiesto a quella coppia se a loro parere quel caffè valesse tanto, ci hanno risposto (in italiano): Assolutamente!” (p.2).
E' veramente scandaloso tutto ciò? Dipende, e comunque non necessariamente. I due turisti, ad esempio, potevano informarsi prima del prezzo, e se lo avessero trovato eccessivo erano liberi di bere o non bere il caffè, o di gustarlo invece che al Florian in uno dei tanti bar nelle calli.
Allora, quanto vale un caffè? Un centesimo di euro, 8 centesimi, 80 centesimi o 8 euro?
Evidentemente, se l'acquirente è sufficientemente libero di scegliere, il valore del caffè (come di qualsiasi altra cosa) lo decide lui. E chi vende in condizioni di libero mercato non può far altro che adeguarsi. E' il bello della concorrenza, ragazzi!
In realtà, poi, il caffè vale per il cliente qualcosa di più di quanto egli è disposto a pagare. Perché se al bar mi dicono che il prezzo del caffè (non il suo valore!) è di 80 centesimi di euro, io debbo scegliere tra il valore che attribuisco al caffè e quello che attribuisco agli 80 centesimi che ho in tasca. Se scelgo il caffè, vuol dire che per me vale più degli 80 centesimi a cui rinuncio.
E' questo il miracolo dello scambio, cioè del libero mercato, cioè di un mercato senza padroni: che se io compro un caffè, sia io che il barista otteniamo un valore maggiore di quello che avevamo prima dello scambio! Uno scambio libero produce un valore superiore a zero, cioè maggiore ricchezza (in senso lato) per tutti.
Se così stanno le cose, le vecchie teorie del valore come lavoro incorporato nel prodotto vanno giustamente in soffitta. Anche il metodo del “ricarico” tuttora usato da tanti piccoli imprenditori e commercianti è sbagliato: se il cliente è disposto a pagare cento quel che a me costa dieci, perché dovrei venderlo a quindici (“come fanno gli altri”)? Certo, il mio prodotto dovrà essere diverso, avere caratteristiche che il cliente è in grado di apprezzare. Tutto ciò è particolarmente vero oggi, dato che i lavoratori occupati nei servizi, spesso intangibili e ad alto contenuto professionale, sono ormai più numerosi di quelli che producono beni fisici ad una catena di montaggio.
Ma tutto questo vale solo quando il cliente, il consumatore, l'utente, il cittadino è (sempre relativamente) libero di comprare o no, o di scegliere tra diverse offerte. Quando cioè vi è un mercato in cui vige la concorrenza (sempre imperfetta, s'intende).
Quando invece il mercato è dominato da monopoli, o quando si ha a che fare con beni e servizi che rispondono a bisogni fondamentali dell'essere umano, come l'alimentazione, la salute, la casa, l'istruzione, le cose si complicano.
In questi casi la libera scelta dell'acquirente è nel migliore dei casi interpretata, nel peggiore coartata da qualcun altro, secondo il detto popolare “o mangi questa minestra, o salti dalla finestra”.
I monopoli insidiano tutti i mercati. Di più: sono gli stessi liberi mercati che, attraverso la selezione degli operatori migliori (o dei più aggressivi), se non regolati, tendono inesorabilmente alla concentrazione e quindi al monopolio.
I monopoli sono quindi il virus del libero mercato, si insinuano ovunque, si presentano con nuove forme (ad esempio nel campo dell'informazione). Anche nel passaggio delle arance o del caffè dal produttore al consumatore, è molto probabile che i mercati non siano sufficientemente liberi. In questi casi i monopoli assumono spesso la forma opposta del monopsonio: è il compratore unico che toglie al venditore debole la libertà di scelta.
Se il mercato è dominato da monopoli privati, vi è una sola via da battere: quella di combatterli e di distruggerli, o almeno di ridimensionarne drasticamente il potere di mercato.
Il problema è che la lotta ai monopoli viene spesso in conflitto con il diritto di proprietà. Ebbene, la prima, che ha come fine la libertà dei mercati (che è un pezzo importante della libertà dell'individuo) deve prevalere sul diritto di proprietà. Questo va infatti considerato sì come un diritto fondamentale dell'individuo, ma non un diritto assoluto (la nostra Costituzione è anche da questo punto di vista perfetta: “La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina…i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale…” (art. 42).
Le diverse Autorità preposte al corretto funzionamento del libero mercato (Consob, ISVAP, Banca d'Italia eccetera) debbono essere contropoteri autonomi dotati di poteri adeguati per costringere gli operatori dominanti a rientrare nelle regole del libero mercato. E questo è possibile solo con penali tali da rendere non più conveniente l'abuso di una posizione dominante nel mercato, o con l'obbligo di vendere parti dell'azienda dominante.
Ben diversa è la situazione quando ci si trovi di fronte al monopolio pubblico. Questo ha ragione di esistere solo se si tratta di un “monopolio naturale” (non si possono fare ferrovie, o elettrodotti, o oleodotti paralleli l'uno in concorrenza con l'altro) o se riguarda bisogni/diritti fondamentali di tutti i cittadini (giustizia, sanità, istruzione. Quello della casa è un problema particolare e complesso di concorrenza monopolistica, un mercato che deve essere sottoposto a particolari controlli e interventi pubblici).
Nel caso dei beni e servizi offerti dalle istituzioni pubbliche, come garantire che l'interpretazione da parte delle istituzioni del valore che i cittadini attribuiscono a questi beni o servizi risponda alle reali esigenze delle persone? Infatti, non è affatto detto che le burocrazie pubbliche siano capaci di farlo. Tra l'altro, un monopolio pubblico può anche essere esercitato tramite una concessione a privati specializzati. In ogni caso, non vi è più la benefica “mano invisibile” del libero mercato a far sì che il prezzo richiesto sia considerato accettabile da parte dell'utente o del cittadino. Sono in molti, oggi, che considerano il canone della RAI esorbitante rispetto al valore del servizio offerto.
In questa situazione, una via obbligata è che gli utenti, i consumatori, i cittadini si organizzino come contropotere perché venga dato loro il valore che ritengono giusto. Questi movimenti molto possono apprendere, anche sul piano operativo (ad esempio con forme di disobbedienza civile) da quelli per la difesa dei diritti umani e civili, a partire, non sembri esagerato, dai quelli che hanno consentito la liberazione di popoli interi o il riscatto di cittadini discriminati.
Un ultima questione: ma ciò che desidera il consumatore è sempre giusto? Anche, ad esempio, se chiede della droga, a cui alcuni sembrano attribuire un valore altissimo, o un'arma per ammazzare un coinquilino antipatico?
In realtà, in questi casi, né la droga né l'arma incorporano valore. Il valore è per sua natura costruttivo, e non distruttivo.
Detto ciò, più che i divieti assoluti servono valutazioni e interventi articolati: una dose di cocaina può servire per la terapia del dolore, l'uso di un'arma può essere giustificato dalla legittima difesa, a livello sia individuale che collettivo. Purtroppo ci sono momenti in cui anche la gente comune è disposta a rinunciare al burro e a scegliere i cannoni. Spesso sbagliando tragicamente.
Il valore, oltre a non poter essere negativo, non è neanche solo economico, utilitaristico. In questo senso un pianoforte da suonare in casa, o il cd da ascoltare nella propria stanza o nel metrò, o un bel quadro non valgono meno di una macchina utensile. Forse quest'ultima incorpora un maggiore moltiplicatore della ricchezza, ma non è sempre detto.
John Ruskin, cultore delle arti e ambientalista ante litteram vissuto nell'ottocento, nel pieno fiorire dell'economia utilitarista affermò che la vera ricchezza, sia a livello individuale che nazionale, era costituita dalla qualità della vita.
Amartya Sen, nostro grande contemporaneo, premio Nobel per l'economia, ha detto qualcosa di più: che il valore (o la ricchezza) che lo sviluppo economico dovrebbe assicurare agli uomini è “una libertà sostanziale, cioè la capacità di scegliersi una vita cui, a ragion veduta, ognuno dà valore”. Sia chiaro: “A ragion veduta”.

Giacomo Correale Santacroce


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  6 marzo 2005